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Ribellarsi all’ipercapitalismo per liberare i popoli dalla schiavitù della finanza

Nasce il sistema assistenzialistico centrato su bonus, prebende, complicità sulle evasioni fiscali se non addirittura sulla loro incentivazione sino al muto incoraggiamento del lavoro nero che aumenta i redditi senza negare il diritto all’assistenzialismo. Aumenta la platea dei nuovi poveri che si adattano a questa nuova situazione in cui deresponsabilizzazione e diritto ad essere assistiti fanno tutt’uno.

Chi soffrirà sono i percettori di redditi più o meno ancora consistenti (quelli che un tempo si identificavano con la classe operaia e il ceto medio e medio-alto) divenuti oggetto di prelievo per alimentare le nuove politiche speculative (il 30% degli italiani paga il 70% dell’Irpef al netto, ovviamente, di ogni agevolazione ad essi negata). È facilmente ipotizzabile che queste andranno avanti finché le riserve di quel 30%, cioè il salvadanaio dello Stato assistenziale, non saranno prosciugate ed i redditi degli “abbienti” saranno divenuti anch’essi deficitari grazie all’inflazione non compensata.

Le negative e talora violente derive sociali che stiamo vivendo – le rappresentanze politiche raffazzonate, l’impoverimento culturale, la devastazione della responsabilità civica e civile, l’astensionismo elettorale, la prevaricazione dell’ignoranza assurta a demiurgo della nuova dimensione distopica – sono tutte lì. Con buona pace di quanti pensano che da un giorno all’altro le cose torneranno a posto.

Ma allora siamo destinati all’estinzione? Moriremo tutti, chi prima chi dopo, vittime dell’avidità dei profeti dell’ipercapitalismo? E lo stesso ipercapitalismo non rischia di implodere se la religione da esso messa in piedi dovesse scoprire di non avere più fedeli né chiese e nemmeno Stati e Borse ad esso asservite? Beh, è proprio in questo paradosso la speranza dei popoli, ormai incapaci di ribellarsi, di sopravvivere a sé stessi, malgrado la loro ignavia. Ve la immaginate una religione senza adepti? E un dio senza adoratori? Una chiesa vuota e riti inutili? Questo l’ipercapitalismo non può immaginarlo, figurarsi sopportarlo. Non sopravvivrebbe e, boom, esploderebbe con tutti i suoi profeti che magari si metteranno più o meno felicemente in viaggio tra gli spazi siderali verso Marte, i satelliti di Giove o, addirittura, gli esopianeti…

Ad un certo punto la speculazione innescata dall’ipercapitalismo dovrà fermarsi per far rifiatare i suoi fedeli e dare respiro anche a quanti sono eretici e recalcitranti. D’altronde i suoi sommi sacerdoti non mancano di cinismo e di senso pratico. Nel 2008 abbandonarono al fallimento uno dei loro campioni: la Lehman Brother non solo venne lasciata morire ma fu addirittura usata come arcione di supporto per meglio assestarsi in groppa al mondo terrorizzato. Quindi, verosimilmente, la salvezza, almeno temporanea, arriverà direttamente dagli speculatori e dai finanzieri campioni dell’ipercapitalismo che, obtorto collo, dovranno allentare la presa e suggerire agli Stati di essere più generosi con i propri popoli, magari riesumando qualche meccanismo di compensazione dei redditi falcidiati dagli abnormi aumenti dei prezzi energetici, alimentari, dai tassi di interesse sui mutui e così via. Solo in questo modo infatti quel salvadanaio rappresentato dalla disponibilità economica della parte di popolazione ancora in grado di badare a sé stessa senza ingrossare l’esercito dei nullatenenti, veri o falsi che siano, potrà nuovamente tornare utile alla perpetuazione del potere dell’ipercapitalismo che così potrà continuare a innalzare il suo Dio, ovverosia il consumismo, a nuovo “Leviatano”, celebrare i riti imposti dalla religione del mercato e adescare i suoi adepti.

Ovvio che tale prospettiva non è la migliore e tantomeno il massimo. Essa infatti punterà a rimettere in equilibrio una situazione compromessa ma non a cancellare il sistema ipercapitalistico che sta riproponendo, nella chiave contemporanea dei vecchi corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, la stessa situazione medievale che vedeva la netta divisione tra signori detentori di tutte le ricchezze ed il volgo affamato. La speranza, quindi, è che nel frattempo i popoli, svegliatisi dal loro letargo a causa della insostenibilità del carico fiscale, delle tariffe, dei prezzi e dei tassi di interesse ad essi somministrati come altrettante medicine utili a chi le vende e non a chi le prende, riusciranno a rendersi conto della condizione loro riservata nel caravanserraglio in cui sono stati rinchiusi. Magari riprenderanno a porsi qualche domanda e forse scopriranno di essere socraticamente ignoranti e quindi bisognosi di capire cosa succede intorno a loro.

Finalmente, chissà che non scoprano il baratro nel quale l’ipercapitalismo li ha precipitati e non riescano anche a ribellarsi. Non dico a fare la rivoluzione: per quello bisogna attendere che vengano ripristinati, in tutte le loro potenzialità, ragione, cultura, senso civico, e pensiero come al tempo della rivoluzione francese o al tempo delle grandi rivoluzioni proletarie, ma almeno a riappropriarsi dei fondamentali della civiltà. Questi, come insegnatoci dai Greci e da tutti i popoli del Mediterraneo, consistono nel senso del limite e della misura, gli unici antidoti che possono tagliare le ali al consumismo fine a sé stesso e restituire a popoli ed individui e, perché no, a Stati e Nazioni, una dimensione equilibrata e di buon senso che rimetta l’Uomo stesso al posto che gli compete, restituendo alla finanza, al consumo, alla produzione, alla ricchezza, al “mercato” il ruolo di mezzi atti a perseguire la felicità collettiva dell’umanità lasciando che ciascuno in essa cerchi la realizzazione personale ed individuale più consona alle proprie aspirazioni. Perché l’uomo deve essere al centro dell’azione degli Stati e non a servizio o peggio alla mercé della speculazione finanziaria che lo trasforma in un suo schiavo. È davvero assurdo che nel terzo millennio della nuova era umana si torni al tempo della servitù della gleba con l’unica differenza che al posto della piazza per chiacchierare al termine della giornata di duro lavoro, si cerchino gli algoritmi per capire cosa si deve pensare e fare.

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