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Quando il populismo diventa una malattia che contagia la realtà

Con le sue scorciatoie il populismo erode la realtà un frammento alla volta. Trasforma questioni complesse in slogan da consumo immediato, svuotando le parole del loro peso e le comunità del loro senso critico. Il danno più grave è alla pedagogia: educare richiede tempo, dubbio, fatica, dialogo. Il populismo, invece, alimenta la fretta di “avere ragione subito” e la diffidenza verso la complessità, spingendo a disprezzare chi studia, chi approfondisce, chi insegna a pensare. Così, la formazione diventa un fastidio, la cultura un orpello, il dubbio una colpa.

Ma la realtà non è una bandiera da sventolare per vincere facile: è un campo di responsabilità collettiva, dove ogni parola genera conseguenze, dove ogni semplificazione di comodo produce ingiustizia. Contro il populismo, serve una pedagogia del limite e dell’ascolto. Serve una scuola che non insegni a “gridare per vincere”, ma a pensare per vivere insieme, distinguendo tra ciò che ci fa bene e ciò che ci seduce solo perché è facile. Serve, più di tutto, educare al tempo lungo: quello in cui la complessità diventa casa, non minaccia, e la verità resta un orizzonte da cercare insieme. Serve la politica. Viviamo un tempo di povertà linguistica e culturale della politica, dove il dibattito pubblico si è ridotto a un palcoscenico di slogan, indignazioni intermittenti e indignazioni pilotate. Si parla per colpire, non per chiarire; si comunica per ottenere consenso immediato, non per costruire visioni di lungo periodo. E così, le emozioni elementari – rabbia, paura, appartenenza tribale – diventano moneta di scambio, mentre la capacità di affrontare la complessità evapora. Eppure, serve la politica. Ne abbiamo bisogno più che mai, perché le sfide che viviamo – dalla crisi ambientale alle disuguaglianze, dalla solitudine sociale alla fragilità delle democrazie – non si affrontano con reazioni di pancia o proclami generici. Hanno bisogno di decisioni fondate, di responsabilità e di senso del limite. Per costruire una buona politica, occorrono figure capaci di recuperare tre dimensioni fondamentali: Argomentazioni profonde – La politica, se vuole essere all’altezza del suo nome, deve tornare a pensare prima di parlare. Occorre approfondire le questioni, studiare i fenomeni, conoscere le comunità. Solo argomentazioni profonde possono generare scelte coraggiose e consapevoli, evitando di alimentare illusioni o paure. La parola, in politica, ha il compito di illuminare, non di confondere.

Dubbio critico – spesso vissuto come una debolezza, è in realtà una risorsa politica preziosa. In un tempo che pretende risposte immediate e granitiche, la disponibilità a dubitare, a mettere in discussione le proprie convinzioni e ad ascoltare altre prospettive, è un atto di forza e di realismo. Il dubbio critico ci salva dalle certezze ideologiche che si trasformano in violenza verbale e in rigidità sterile. Ci ricorda che l’altro potrebbe avere ragione e che la complessità non si risolve con soluzioni facili.

Mediazioni – In un’epoca in cui la polarizzazione e la contrapposizione alimentano la retorica pubblica, la capacità di mediare diventa un atto rivoluzionario. Mediare non significa svendere i propri valori, ma renderli operativi all’interno di un contesto pluralistico. Significa cercare convergenze, costruire compromessi dignitosi, favorire coesione sociale. La democrazia si regge sulle mediazioni, non sulle tifoserie.

Quando la politica si riduce a una retorica povera, capace solo di alimentare emozioni scollegate da pensiero e visione, genera cittadini impoveriti culturalmente e emotivamente. Persone che non sanno più distinguere tra conflitto costruttivo e odio, tra indignazione giusta e risentimento sterile, tra passioni che spingono all’impegno e impulsi che paralizzano. Una mediocre pratica retorica del “fare”, che confonde l’azione con l’attivismo cieco e la decisione con l’imposizione, rischia di produrre una politica incapace di vedere il futuro. Una politica che si limita ad amministrare l’oggi, senza seminare domani. Serve la politica che sa unire emozione e ragione. Non dobbiamo temere le emozioni in politica: sono motore dell’impegno, linfa dell’umano, fonte di energia collettiva. Ma le emozioni, senza la ragione, diventano manipolazione. La buona politica sa unire passione e lucidità, sa suscitare entusiasmo senza cadere nella propaganda, sa parlare ai cuori senza disprezzare le menti.

Il futuro non si improvvisa. Il bene comune non si costruisce inseguendo l’applauso immediato. Serve la politica, quella vera, quella che richiede pazienza, responsabilità, cura dei legami, coraggio di scegliere anche quando è scomodo. Oggi più che mai, serve la politica che educa, ascolta e trasforma, capace di affrontare le ingiustizie, di costruire visioni condivise, di ridare senso alla parola “comunità” in una società frammentata. «La democrazia è il potere di discutere e di dubitare», come diceva il maestro, Norberto Bobbio.

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