L’incertezza è una caratteristica costitutiva della nostra società. Pervade le istituzioni, il lavoro e l’economia, lo stato sociale, la politica, le religioni, i valori collettivi e personali, le nostre identità. Viviamo con un senso di precarietà ormai endemico che genera insicurezza e incapacità di progettare e attuare piani per il futuro. I giovani e i giovanissimi ne sono particolarmente colpiti. I tradizionali punti di riferimento per elaborare strategie di vita appaiono d’un tratto inservibili.
Si pensi al lavoro con la sua incontrollabile deregolamentazione, ai legami affettivi e alle relazioni sociali sempre più deboli, allo spreco di risorse personali e collettive. Le due principali agenzie educative, la famiglia e la scuola, soffrono una crisi di orientamento che le induce spesso al conflitto piuttosto che alla cooperazione. Agli adulti, genitori e insegnati, non di rado mancano possibilità e capacità di elaborare modelli educativi in grado di preparare alla vita le nuove generazioni.
Incertezza e ambiguità non possono essere affrontate solo con spezzoni di discipline scolastiche variamente assortite e protocollate da dispositivi burocratici e ministeriali. Il rischio è di sfidare la radicale trasformazione del mondo in cui viviamo con la riproduzione di modelli educativi monotoni che alternano perlopiù divieti e obblighi, crediti e debiti formativi. Il sistema scolastico potrebbe ripartire dal riconoscere la bellezza dell’apprendimento trasformativo, dalla cura del proprio sé che non è concepibile senza la cura dei propri discorsi e che non ha un’indole solitaria. Tutt’altro, l’esercizio della cura di sé è iscritto nella socialità della sfera pubblica. Ma cosa vuol dire potenziare le facoltà che permettano un buon uso della propria esistenza?
Qualche esempio: reagire agli eventi imprevisti, accrescendo le capacità di scelta e decisione; formulare ipotesi su come alcuni fatti sarebbero potuti andare diversamente, rafforzando il ragionamento controfattuale; destreggiarsi tra discorsi di genere differente, passando da quello scientifico, letterario o filosofico a quello quotidiano; migliorare le abilità, sviluppando il proprio potenziale. L’educatore, insegnante o genitore, non può limitarsi alla trasmissione dei saperi espliciti ben strutturati nei programmi di studio.
Il suo è oggi un compito ben più complesso, quello di delineare un orizzonte di senso in cui sia possibile tracciare un processo educativo aperto che adotti ipotesi esplicative che possano essere confermate o rivelarsi errate, comunque in grado di esplorare nuove possibilità. Non importa che l’ipotesi sia giusta (se ne possono sempre avanzare altre), quel che conta è ridurre l’ignoto e sorprendersi che si possa fare. È questo il nocciolo di un pensiero critico che riflettendo valuta le alternative. I giovani esibiscono spesso identità frammentate, a volte pericolosamente dissociate, messe in campo per fronteggiare situazioni, in presenza o virtuali, che richiedono l’adattamento a regole sociali differenti e talvolta contrastanti.
È nell’esperienza dell’incontro con l’educatore che potranno costruire un proprio stile cognitivo e comportamentale che contrasti il disagio relazionale ed esistenziale. Disagio che rischia di trasformarsi in dolore inconfessato. Per tenere a bada l’incertezza e il disadattamento scuola e famiglia non possono che potenziare quelle facoltà che permettano alle nuove generazioni un buon uso della propria esistenza. Noi adulti di frequente raccontiamo quel che un giovane è o che dev’essere tralasciando quel che egli può fare di sé, della sua forma di vita. Forse con coraggio (virtù oggi insolita) potremmo in-segnare ai nostri figli e studenti che apprendere dall’errore non è il ritorno a una presunta giusta via, è invece riconoscere che siamo umani perché esploriamo il possibile: né quello che il mondo è, né quello che dev’essere, ma come potrebbe essere altrimenti.
Bentornato,
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