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Orfani del neorealismo che offre una visione prospettica delle cose e della memoria

La differenza, quasi sempre, la fanno gli angoli prospettici. Il luogo da cui scorgere la realtà. Ovvero, in modo ancora più pertinente, con quali occhi guardare il mondo.

Ci sono le dichiarazioni – quasi sempre le stesse, un copia-incolla pedissequo, a volte imbarazzate – che non bucano la realtà, non la intercettano. Anzi, la eludono: nulla dicono del dolore, che resta muto, inespresso; della paura, della disperazione di popoli ridotti a merce di scambio.

A margine della conferenza allo Studio Ovale – travalicando l’ovvio che è stato detto e ridetto, in tutte le salse e con tutti gli accenti – resta, inespressa, la desolazione della guerra, la tabula rasa delle economie e della stessa civiltà europea ovvero di quello che ne resta.

Per quanto quello spettacolo osceno – incluso il rituale dello scherno subappalato agli ascari (“ma un vestito nuovo quando lo indossi?”) – abbia smosso la coscienza di tanti, sullo sfondo, come se fosse un precipitato, resta la paura. Una paura terribile che un mondo volge al declino, inesorabilmente; che le narrazioni consolidate siano andate alla malora: tutte, nessuna esclusa.

Ricordavo un vecchio pezzo di Giorgio Gaber, penso si chiamasse L’attesa: “No, non muovetevi/ C’è un’aria stranamente tesa/ Un gran bisogno di silenzio/ Siamo come in attesa”.

Non è casuale che a margine dell’agenda convulsa di questi giorni ci siamo imbattuti in una non notizia, che ha fatto la sua comparsa/scomparsa in un arco temporale praticamente sovrapponibile al summit di Washington.

Si tratta di uno studio scientifico che ha analizzato il Dna di donne siriane che hanno vissuto il dramma della guerra. Quesi ricercatori – Connie Mulligan dell’Ateneo della Florida, Rana Dajani di quello giordano e Catherine Panter-Brick di Yale – hanno “mappato” tre gruppi di famiglie siriane: un primo gruppo riguarda le famiglie che sono sopravvissute all’attacco di Hama; un secondo coloro che hanno vissuto la guerra civile contro il regime di Assad. Un terzo gruppo, invece, non ha vissuto nessuno di questi traumi. Ebbene, lo studio ha messo in evidenza come la violenza subita lascia segni sul Dna, che sono poi trasmessi anche alle generazioni future.

Ecco – a margine dell’esercito europeo, dei ritardi della politica europea, del suo recuperare un senso di onore dopo che il suo onore lo ha sversato in Grecia, nelle esternalizzazioni della gestione delle rotte dei migranti (sul frionte libico e su quello balcanico) – a me interessa questo angolo prospettico: né un pensiero, né una opinione ma l’incisione – come un graffito – della guerra nel Dna di queste vite e di quelle a venire.

Nel mentre consegno sfuma la speranza di Isabella Rossellini di vincere l’Oscar, quale attrice non protagonista. Lo meritava lei, la sua bellezza; lo esigeva la sua storia. E sarebbe stato anche un omaggio a quel filone del neorealismo che ha reso il cinema italiano – e, quindi, europeo – un qualcosa di unico, irripetibile.

A noi manca, oggi, quello sguardo prospettico, strabico di Germania anno zero; a noi manca una nuova “trilogia della guerra”, una nuova memoria collettiva, che possa raccontare e tenere per mano Kiev e Gaza, con i loro paisà.

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