La casa – una specie di porto franco – che ci ospitava durante il periodo natalizio è ormai un tugurio di umidità e di calce scrostata. Lì, proprio lì, dove l’odore del muschio e della terra era più intenso il tanfo della muffa è ormai insopportabile. Per alcuni giorni diventavo di fatto un muratore che impastava carta e gesso, tracciava strade di breccia minuta, perimetrava campi arati e deserti miti. L’orizzonte prospettico portava alla grotta che era un vecchio treppiedi ricoperto di corteccia di albero e di muschio fresco, fatto sui boschi qualche giorno prima. Al centro della grotta, un Gesù bambino non bello né biondo.
E le statue di caratapesta, bellissime, a cui mancava solo la parola. A vedere l’insieme ad altezza mia, che era a raso del livello di un tavolo, sembrava un fermo immagine che poteva animarsi da un momento all’altro.
Dall’altra parte della grotta si stagliava il castello di Erode, sullo sfondo, diciamo in periferia, con una sola luce all’interno ma sinistra; non c’era una statua nelle vicinanze ma solo qualche animale che si inerpicava sulle montagna. Erode era lì, dentro a quel castello; ma che fosse lì dentro era paradossalmente un atto di fede.
Già, Erode. A proposito di fermo immagine, il suo pretorio è sempre lo stesso, identica nei secoli la perenne puzza di piscio. È da lì che è passato Giulio che – ci diceva sua madre – portava impresso sul viso e sul corpo “tutto il dolore del mondo”; attorno alle sue città fortificate si stendono, da sempre, le fosse comuni, le carceri con i kapo; da lì partono per posti impensati i poveri cristi mandati al macero anche loro non belli né biondi. Erano belli, invece, i bimbi in fila per il pane, fatti brillare come una stella oscena. E la neve, che copre i loro corpi, che nel presepe non c’era affatto, sembra un atto di pietà, un velare cristo a sua insaputa.
E il pretorio sono anche le montagne che la malattia ci induce a scalare; e la mulattiera diventa ancora più faticosa e scoscesa se il percorso non è il tuo ma delle persone che ami. Il pretorio sono le catene della continenza psichiatrica che vengono spezzate dal logos, dalla parola, dall’audacia di dire, sdoganando la vergogna della malattia. Le parole di Cognetti – enormi nella sua portata dirompente – nulla sono rispetto alla tinta rossiccia dei suoi capelli che è il segno più evidente della rinascita, della speranza.
Il mistero dell’incarnazione, il prologo di Giovanni, reca in sé il dramma e la follia del Natale ovvero considerare eterne, immortali, le nostre povere vite. I
l Natale preso sul serio è questa cosa qua, non altro. La passione del presepe sottende questa follia e questo dramma. Non certo la “natalizzazione” ovvero quel “processo continuo di marketing e comunicazione, con minimi saliscendi, che ha da tempo tappezzato le nostre esistenze individuali e collettive, la nostra esperienza sociale, ristrutturando alla radice i desideri, inducendo bisogni e magnificandoli come strettamente necessari”, come lo definisce acutamente Gianfranco Marrone nella bella introduzione alla riedizione del libro di Claude Lévi-Strauss “Babbo Natale giustiziato” per i tipi della Sellerio Editore.
Somigliamo tanti, un po’ tutti, a quelle statue di cartapesta. Non certo per grazia di portamento quanto per l’essere bloccati, fermi. Ma siamo lì, anche noi disgraziati, nel posto giusto, attorno ad una grotta.
Bentornato,
Registratiaccedi al tuo account
Tutte le news di Puglia e Basilicata a portata di click!