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Ma tutti quegli anglicismi sono proprio necessari? Qualcuno salvi l’italiano

La lingua italiana è oggi seriamente minacciata dall’invasione dell’inglese globale. Gli anglicismi stanno occupando zone sempre più vaste della comunicazione pubblica, prima fra tutte la politica, la pubblicità e l’economia, il mondo dell’informazione e della scuola: un fenomeno, quello dell’anglofobia, che sta portando ad una graduale sostituzione della lingua italiana.

Trainer, weekend, team, partner, privacy, triage, kit, abstract, fans, gossip, trailer, compilation, share, fake news, food, background, beauty case, break, budget, business, partnership, meeting, convention, location, vision, welfare, target, governance, competitor, soft, brand, friendly, account, call center, check-up, cover, escalation… Quale di questi termini non ha almeno un corrispettivo italiano?

Siti e agenzie che pubblicizzano offerte di lavoro sono infarciti di anglicismi: l’offerta di una posizione di lavoro a tempo pieno con possibilità a tempo parziale diventa full-time/part-time; una competenza avanzata nella progettazione diventa skill in project management; l’offerta di un lavoro da remoto diventa remote work; un programma di formazione diventa training programme; un colloquio di lavoro diventa job interview, e così via. Anglicismi altisonanti trasformano un segretario in executive assistant, un addetto alla ricezione in office receptionist, un progettista in designer, un cuoco diventa chef e un addetto alle vendite diventa sales rappresentative.

Scorrendo l’elenco delle invasioni anglofile di qualche anno fa, conseguenza dell’emergenza pandemica, abbiamo assistito all’ennesima “inglesata” assestata alla lingua italiana: lockdown al posto di confinamento; green pass al posto di passaporto verde; cluster al posto di focolaio; hub vaccinale al posto di centro vaccinale; booster invece di dose di richiamo; il lavoro agile è diventato smart working; droplet al posto di goccioline di saliva; no vax e no green pass, per indicare i contrari alla vaccinazione e alla certificazione verde; recovery fund al posto di fondi per la ripresa.

Vedendo tutte le insegne che, riccamente colorate, indicano locali destinati ai vari beauty center, hair stylist, hair lounge, salon hair & beauty, artist hair concept, guest air dresser e men barber shop, che sono presenti non a Londra o a Oxford, ma nelle città italiane, viene da chiedersi che fine abbiano fatto il nostro barbiere e la nostra parrucchiera.

Anche il mondo della scuola è pervaso dall’ondata anglofila, che lungi dal rivelarsi un aiuto all’apprendimento dell’inglese si rivela essere, invece, un mezzo di appiattimento della lingua italiana. Nella didattica, per esempio, sono ricorrenti espressioni tipo group work, learning by doing, cooperative learning, role playing, peer tutoring, e-learning, blended learning, quasi ignorando i corrispondenti termini italiani. Sul sito del Miur, neobattezzato Ministero dell’Istruzione e del Merito, leggiamo del Piano nazionale di scuola digitale: un documento d’indirizzo per il lancio di una strategia complessiva d’innovazione della scuola italiana, nel quale leggiamo di challenge prize per la scuola digitale (idea’s box), di linee guida per politiche attive di Byod (Bring your own device), di laboratori school-friendly, di risorse Pon (linea smart school), di servizi di single-sign-on, di framework comune per le competenze digitali, di percorsi per gli studenti che potranno riguardare il making, la gestione digitale del cultural heritage, digital storytelling; leggiamo di research unit per le competenze del 21esimo secolo, di information literary e digital literarcy, di girls in tech & science e di discipline Steam (Science, Technology, Engineering, Art and Mathematics), di confidence gap, di stakeholder club per la scuola digitale, di community management, di Lcms (learning content management system), di modalità di ricevere informazioni lean back, di realizzazione di un modello italiano di teachers’ standards, e di tante altre “inglesate” di assai dubbia utilità.

Esiste già una specifica disciplina per insegnare l’inglese nelle scuole, come esistono apposite metodologie didattiche al riguardo. Non c’è alcun bisogno di infarcire di anglicismi norme di legge, regolamenti, “piani” e direttive, che oltre a non portare alcun bene all’Italia, si configurano come un atteggiamento di scarso rispetto per i cittadini.

Lo “tsunami anglicus” sta portando a tutta una serie di combinazioni ibride, che partendo da un termine inglese si allargano a dismisura, cancellando i corrispondenti termini italiani. Dalla parola food, per esempio, si sono generati fast food, slow food, finger food, street food, food delivery; dalla parola smart sono nate smart working, smartphone, smart cooking, smart city. Dal fenomeno delle ibridazioni, poi, nasce anche una sorta di grammatica sgrammaticata. Si pensi, a titolo di esempio, ai tanti ibridi come chattare, whatsappare, uploadare, hackerare, twittare, bloggatori, spoilerare, taggare, rappatori, scoutismo, clownterapia, pornoshop.

È bene chiarire che siamo ben lontani da ogni forma di autarchia linguistica, di zelo nazionalista, che richiamano altri periodi storici. Le libertà linguistiche di ciascuno restano un valore irrinunciabile. Siamo altresì ben consapevoli che influenze straniere possono significare un allargamento di orizzonti culturali e che molti forestierismi (arabismi, ispanismi, francesismi, germanismi), peraltro già presenti nella nostra lingua, costituiscono un arricchimento per la lingua stessa; il proliferare a dismisura degli anglicismi, al contrario, portando ad una progressiva sostituzione dei corrispondenti termini italiani, rischia di portare solo ad un depauperamento della nostra lingua.

A volte si ha l’impressione che attraverso l’inglese si voglia far apparire una cosa, un prodotto, un evento più importante di quello che effettivamente è, oppure che si voglia “indorare” la pillola, quasi a limitare la capacità delle persone di capire, di riflettere, di porsi delle domande su quello che appare come un termine tecnico “azzeccato” e che invece è solo un modo per confondere le idee. Soprattutto nei discorsi pubblici, quelli prodotti da molti politici e rappresentanti istituzionali e presenti anche in provvedimenti legislativi e atti amministrativi, l’abuso di anglicismi assolve spesso a scopi comunicativi di dubbia correttezza.

È forse giunto il momento che l’Italia cominci a pensare ad una diversa attenzione nei confronti di una lingua, l’inglese, che non crediamo meriti tanta subalternità, né sul piano storico-culturale né sul piano politico-sociale. Riteniamo, in definitiva, che si debbano adottare opportune iniziative atte a porre un freno a questa tendenza e preservare l’integrità della nostra lingua, come del resto già fanno altri Paesi europei. Ovviamente, ci aspettiamo che siano innanzitutto le istituzioni pubbliche a dare l’esempio, cominciando a non infarcire di inutili anglicismi le proprie comunicazioni ufficiali, documenti amministrativi, pubblicità istituzionali e persino testi di legge.

Giuseppe De Cato è avvocato

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