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Luci e ombre di una chiesa diventata probabilmente troppo umana

Stilare un bilancio dei dodici anni di pontificato di papa Francesco non è operazione semplice. Finora ci sono riusciti soltanto in due: un comico e un teologo. Proprio così, Lino Banfi e Vito Mancuso sono coloro che hanno restituito la fotografia più efficace della chiesa umana, forse troppo umana, incarnata da Bergoglio.

Banfi ha parlato del pontefice appena scomparso come di «un fratello minore». Ha raccontato delle loro telefonate scherzose, degli scambi di auguri, della foto in cui sembrano «due ragazzi che hanno appena compiuto una marachella». Insomma, non il vicario di Cristo in terra e un fedele, ma due persone comuni che conversano abitualmente al telefono, si incontrano, scherzano.
Mancuso, invece, ha parlato di Francesco come di una persona empatica, cioè capace di entrare facilmente in relazione con l’altro. Tanto che, secondo il docente universitario, dopo Bergoglio non esisterà” più la teologia ma la “teo-empatia”, cioè di una dimensione in cui la passionalità prevale sul ragionamento.

In effetti, Banfi e Mancuso descrivono, sebbene con linguaggi completamente diverse, il volto che Francesco ha voluto dare alla sua Chiesa: una comunità aperta, attenta alle periferie del mondo e dell’esistenza, portata alla semplicità e alla popolarità. Una Chiesa umana, dunque, che però dell’uomo conserva anche i difetti, a cominciare dalle contraddizioni.

Già, le contraddizioni. Perché del papato di Francesco resteranno non solo i viaggi nelle località più remote del pianeta, la vicinanza alle vittime di abusi da parte di preti pedofili e ai carcerati, l’attenzione ai migranti e ai poveri, la camminata nella Roma resa deserta dalla pandemia, le telefonate improvvise a personaggi famosi e gente comune, le comparsate in televisione e le due autobiografie pubblicate in un solo anno, ma anche le umane-troppo-umane ambiguità su diversi temi.

Si pensi alla guerra nell’Est europeo, per esempio. Prima di arrivare a parlare di «martoriata popolazione ucraina», Bergoglio ha impiegato diversi anni: un arco temporale in cui si è mostrato prima equidistante tra Kiev e Mosca (invitando una famiglia russa e una ucraina alla Via Crucis del 2022), poi anti-putiniano, infine poco indulgente col nuovo corso inaugurato dal presidente americano Donald Trump sebbene mai apertamente contro di lui. Stesso discorso per la guerra in Medio Oriente, sulla quale ha assunto posizioni spesso indecifrabili prima di arrivare a parlare apertamente di «genocidio» dei palestinesi.

E lo stesso discorso vale per le questioni teologiche. Tante le aperture alle donne che, tuttavia, non sono state seguite da riforme radicali in una Chiesa che è rimasta maschile. Ancora, sugli omosessuali, Bergoglio ha alternato segnali di apertura a posizioni più conservatrici arrivando persino a denunciare la «frociaggine» della comunità ecclesiale.

Da una parte, dunque, il tentativo di umanizzare la Chiesa ha prodotto risultati apprezzabili, conferendo a un’istituzione in forte affanno la capacità di sintonizzarsi sulle frequenze della gente comune: non è un caso che nel 2015, con l’enciclica “Laudato si’”, Bergoglio abbia di fatto anticipato la “svolta green” abbracciata da popoli e Stati. Dall’altra parte, però, le politiche di Bergoglio hanno fatto sì che la Chiesa assorbisse anche contraddizioni, ambiguità e indecisioni sui quali sarebbe stato necessario avere una parola forte e ferma fin da subito. Il risultato è una chiesa umana-troppo-umana che oscilla tra Banfi e Mancuso.

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