Lo “Shemà” per invocare un vero cambiamento

Ci sono tornanti, inutile negarlo; crocevia in cui il vento cambia o potrebbe cambiare. Le elezioni americane, per esempio, sono quelle destinate a indirizzare il vento, la rotta verso approdi forse inediti che impatteranno comunque con le nostre vite. A fronte di questi incroci restiamo osservatori attenti, ma niente di più. Eppure la posta in gioco non la cogliamo – il nostro metronomo è da sempre oltreoceano, tanto per ricordarci una banalità – né ci inquieta sapere che Bannon a queste latitudini è di casa così come Aleksandr Gelʹevič Dugin, due galantuomini.

Ma ci sono anche altri tornanti, altri venti che impattano le nostre vite, quella storia minore che notoriamente non fa storia. Anche in questo caso ci muove la consapevolezza – errata – che il vento sia diverso, altro anche il tornante, l’incrocio. Anche di questa storia – domestica, di paese – noi siamo solo osservatori: anzi, ne siamo consumatori, come si consumano cose.

È la preoccupazione che ha espresso la ragazza di Santo Romano, il diciannovenne ucciso per un diverbio nel napoletano: «Non voglio che il suo nome finisca in fondo all’elenco delle tragedie assurde e venga dimenticato. Il suo sacrificio deve aiutarci a cambiare».

Il suo grido è, difatti, uno Shemà, una invocazione, una preghiera; un invito a recitarla – proprio come la fondamentale preghiera della liturgia – durante le orazioni del mattino e della sera.

Osserveremo e consumeremo, invece, anche questa vita, queste vite. Voleranno via – queste vite, le nostre – come i palloncini ai funerali, per ricordarci come l’unica vera egemonia culturale oggi sia quella di Maria De Filippi.

E a nulla valgono le parole di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli: «Un copione, un canovaccio, una routine perversa: l’ennesima giovane vita. L’ennesimo funerale. Gli ennesimi appelli. L’ennesima indifferenza e impotenza. L’ennesima voglia di non parlare, di non dire nulla poiché nulla è rimasto da dire e il tempo delle parole è ormai finito. Perché non ci sono parole che possano lenire il dolore di due genitori, di una famiglia che vede spezzata la vita del proprio figlio. E come comunità, come Chiesa, siamo qui per condividere questo dolore. Siamo qui per portare insieme il peso di una sofferenza che è troppo grande per essere sopportata da soli».

Consumeremo anche la nostra rabbia, l’incapacità di non credere più manco ai numeri.

Li dava l’Istat, i numeri, alcuni giorni addietro, nel suo rapporto annuale 2024: «Nel 2023 l’incidenza di povertà assoluta in Italia è pari all’8,5 per cento tra le famiglie e al 9,8 per cento tra gli individui. Si raggiungono così livelli mai toccati negli ultimi 10 anni, per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e di 5 milioni 752 mila individui in povertà. L’incidenza di povertà assoluta familiare è più bassa nel Centro (6,8 per cento) e nel Nord (8,0 per cento sia il Nord-ovest sia il Nord-est), e più alta nel Sud (10,2 per cento) e nelle Isole (10,3 per cento)».

Che il vento sia lo stesso lo dimostrano gli arnesi – metereologici – che usiamo per tentare di capire; parliamo di povertà come se discettassimo del tasso di umidità: accidenti, eventi atmosferici. Cose che accadono, comunque ineluttabili: come la pioggia, la nebbia.

E che il vento sia di quelli fasulli lo dicono le analisi altrettanto fasulle che – a queste latitudini come oltreoceano – pongono il tema sulle coalizioni, sulla corsa al centro spostando l’angolo visuale dai numeri, gli unici che potrebbero inchiodarci ad un analisi seria.

I richiami all’ordine, alla democrazia in pericolo rischiano di essere meri esercizi retorici se non si riparte dalla consapevolezza che «la democrazia deve essere continuamente combattuta e riconquistata da ogni generazione; non può restare ferma; se non si muove in avanti per soddisfare le esigenze delle nuove condizioni di vita, degenera e alla fine morirà» (John Dewey, discorso nel Vermont, maggio 1939).

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