SEZIONI
SEZIONI
Bari
Sfoglia il giornale di oggiAbbonati

L’esercito comune europeo sarebbe una trappola e un pericolo. Il nostro è un continente di pace

In Europa ci attende una lunga traversata del deserto. Sperare di recuperare il rapporto con gli Usa e con gli oligarchi che se ne sono impadroniti, significa non aver cognizione della gravità della situazione. E questo vale per tutti. Per le democrazie liberal vecchio stampo e per i Paesi a guida sovranista: si guardi all’Italia e all’inutile spola della premier Meloni tra Washington, Roma e Bruxelles per convincersene.

La saldatura tra Russia, Usa e Cina non lascia margini di dubbio nemmeno ai loro epigoni cresciuti tra le nazioni europee. È il senso del potere nell’interpretazione dei nuovi “regnanti”. È cambiato il rapporto fra i destinatari dell’azione del potere e quei “regnanti”. Tutto è stato capovolto.

Il fine del governare non è il bene collettivo, ma l’accumulo di potenza e ricchezza in testa a chi governa e al blocco di magnati-oligarchi che quel governo sostiene. Il consenso, dal canto suo, non arriva più da un’opinione pubblica attenta, ma da supporter e propagandisti del nuovo ordine centrato sul dominio di un gotha di ultramiliardari che dispongono della tecnologia e della strumentazione per controllare, orientare, creare il pensiero delle masse. Non è un fulmine a ciel sereno quel che ci è scoppiato tra i piedi.

Per troppi decenni, a partire dal cosiddetto boom economico postbellico, le stesse classi dirigenti europee, che pure avevano combattuto la dittatura nazifascista, hanno coltivato l’idea dello sviluppo economico come paradigma della supremazia dei popoli e degli individui sul piano del benessere materiale disgiunto da dimensione primordiale, valori ancestrali e interessi culturali. La disaffezione verso il bene pubblico e lo scollamento nei confronti dell’interesse collettivo sono diventate derive inarrestabili che procedevano di pari passo con la fine della programmazione in economia, con la separazione dei destini delle banche centrali da quelli degli Stati di appartenenza, con l’avvento del predominio della finanza privata su quella pubblica e con l’affermarsi della privatizzazione delle funzioni proprie degli Stati e delle loro istituzioni a fronte del progressivo affievolirsi delle teorie keynesiane del controllo sull’economia.

Tutto – scuole, ospedali, agenzie, enti – è diventato azienda e il funzionamento delle istituzioni un problema di efficienza e taglio di costi e posti di lavoro. C’è una lunga storia di prevaricazione del privato sul pubblico dietro la chiusura delle agenzie federali americane ma anche dietro la chiusura degli ospedali e la privatizzazione delle strutture sanitarie, e non solo, in Italia. Il lavoro, la solidarietà, la partecipazione comunitaria sono state derubricate a residui inutili e costosi di cui prima ci si liberava, meglio era per tutti. Di pari passo anche i contenitori culturali scivolavano verso forme di deresponsabilizzante passatempo se non di mercificante sessismo e becera risata che metteva alla berlina i perdenti. L’occupazione degli spazi pubblici da parte dei potentati privati, nel frattempo assurti a padroni della tecnologia, della comunicazione e dell’informazione, ha fatto il resto.

Quando ci siamo svegliati, sotto i colpi di Trump e di Musk che hanno legittimato le altrui aggressioni a colpi di artiglieria e notizie false, eravamo tutti assuefatti, prigionieri di una melassa difficile anche da sentire. Quello era ormai l’humus nel quale ciascuno di noi e l’umanità tutta viveva e di cui era addirittura impastata. Oligarchi o magnati, senza distinzione di provenienza o di fede e credo politico erano diventati i padroni incontrastati del mondo convinti di poterne disporre a piacimento, occupandolo, violentandolo e decidendo per gli altri ciò che era bene e male in funzione dei loro interessi di quel momento. Portavano la guerra, praticavano l’occupazione con governi-fantoccio ed elezioni truccate e si arrogavano il diritto di decidere del destino di chi quella guerra o quell’occupazione aveva subito tra morti e distruzioni. E ciascuno degli aggressori predicava la fine del mondo globale/unipolare a proprio beneficio.

Poi, chetatesi le acque, all’orizzonte si è stagliata, debordante nella stazza e precisa nei lineamenti, la figura del cerbero che con le sue tre teste ha tutta l’aria di voler imporre al mondo il nuovo ordine e di mantenerlo a lungo. L’Europa si è scoperta annichilita e ci siamo accorti che il Mediterraneo, da essa colpevolmente abbandonato in favore dell’Atlantico, nonostante nel 1994 a Barcellona ne avesse riaffermato la centralità, era stato irrimediabilmente trasformato in bacino per le scorribande di potenti senza scrupolo e in un cimitero di migranti. L’Europa è in preda al disorientamento che oscilla tra la rassegnazione e il panico, davanti al ringhio del cerbero che ha preso a muoversi dentro ai suoi confini come se stesse nel giardino di casa. Il modo in cui Russia e Usa, due delle tre teste del cerbero, si stanno muovendo, con la terza, la Cina, in vigile attesa, non lascia alcuna possibilità di correzione della rotta intrapresa. L’Europa è fuori gioco e irrimediabilmente vittima di un’entropia senza speranze, almeno nell’immediato, con gli Stati membri che si muovono in ordine sparso, chi accovacciandosi ai piedi dell’uno o dell’altro padrone, chi, come la Germania, attendendo di capire nelle imminenti elezioni se l’azione congiunta intrapresa dalle due teste del cerbero, quella americana e quella russa, per destabilizzarla sostenendo i neonazisti, avrà successo o meno. In tale contesto ogni Paese dovrà attrezzarsi per affrontare la lunga traversata del deserto che, come una voragine, si è aperta davanti al suo futuro. Le scomposte reazioni russe e i silenzi degli altri attori internazionali alla recente lectio magistralis in cui il presidente Sergio Mattarella ha evocato il rispetto del diritto internazionale, ne sono un evidente segnale.

È venuta meno la consapevolezza che la cooperazione tra i popoli debba prevalere sulla competizione se si vuole che la libera circolazione delle persone e delle merci, la condivisione delle informazioni, la visione integrata dello sviluppo restino alla base della convivenza umana oltre che della pace. Così tornano le aberrazioni neocolonialiste che violano la sacralità dei diritti dei popoli. Anche l’orrore dell’olocausto nucleare, retaggio della guerra fredda che aveva immobilizzato il mondo in rigide sfere di influenza, sembra non contare più nulla davanti alla protervia dei nuovi potenti che dichiarano la volontà di azzerare il vecchio ordine creandone uno nuovo a propria misura nel quale gli armamenti nucleari vengono continuamente e minacciosamente esibiti. La percezione globale del mondo, che doveva trovare nel consesso delle nazioni il suo punto di equilibrio, è venuta meno come le speranze di sviluppo globale e l’idea che si potesse vincere la lotta contro fame, povertà, ingiustizia.

Il nuovo millennio, che pure si era annunciato come quello giusto per il mondo, sta sperimentando un evidente deragliamento. L’Europa che, per dirla con Simon Weil, si proponeva come la grande isola di pace in grado di concentrare su di sé le attenzioni di popoli e nazioni, appare confusa, al limite dello smarrimento. Le derive contro la speranza di un mondo di pace e di sviluppo condiviso sembrano essersi compiute. È la rivincita dei regimi autoritari materializzatasi con l’avvento di magnati e oligarchi che assommano in sé potenza, ricchezza e fonti di informazione-comunicazione sino a produrre non solo assuefazione ma addirittura consenso e sostegno nei popoli. In un simile scenario l’Europa sta per cadere nella trappola della creazione di un esercito continentale da contrapporre a quello delle tre teste del cerbero candidandosi ad essere la quarta.

Si tratta di una risposta pericolosa oltre che in contrasto con la sua cultura postbellica, post nazista, post fascista consolidatasi in ottanta anni di pace e cooperazione internazionale. Comunque non alla sua portata. Per la verità, non sembra nemmeno quella giusta trattandosi di una risposta che nasce vecchia e che fa sue le derive violente del Cerbero. Essa non sarebbe altro che la reazione simile e contraria alle derive imperialistiche che stanno minando il mondo. La sfida dell’Europa oggi dev’essere quella di riaffermare la sua vocazione di continente di pace, per riprendere la citazione di Simon Weil. Dal Mare del Nord al Mediterraneo. Dal Polo Nord all’Africa e al Medio e Vicino Oriente asiatico. Anziché innescare la corsa al riarmo che condurrebbe inevitabilmente a un’economia di guerra, l’Europa dovrebbe scegliere il disarmo come sua prospettiva restituendo forza alle sue istituzioni pubbliche e sociali e affermando la volontà di rifiutare ogni violenza. Sarebbe la rivoluzione di cui il mondo ha bisogno. Difficile ma non impossibile. Con l’Europa orientata al disarmo, il mondo si scoprirebbe nudo e i suoi anticorpi, anche quelli dell’America democratica e libertaria, oggi paurosamente silenti, si potrebbero risvegliare.

ARGOMENTI

difesa
esercito comune
idee
stati uniti
unione europea

CORRELATI

Bentornato,
accedi al tuo account

Registrati

Tutte le news di Puglia e Basilicata a portata di click!