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Le celle iraniane indignano tutti, quelle italiane nessuno le vede

La detenzione della giornalista Cecilia Sala in Iran è stata accompagnata da un’ondata di indignazione per le disumane condizioni in cui versano gli ospiti del carcere di Evin.

Celle sovraffollate e spesso senza finestre, zero letti o brandine ma solo un tappeto e una coperta per ripararsi dal freddo, cuscini infestati dagli insetti, luce accesa giorno e notte per impedire ai reclusi di dormire, senza dimenticare pessime condizioni igieniche e sistematiche violazioni dei diritti umani: quanto basta, insomma, per far sì che anche i manettari più convinti si stracciassero le vesti. Peccato, però, che altrettanta attenzione non sia stata e non sia tuttora riservata al tema della detenzione in Italia. Intendiamoci: qui nessuno vuole paragonare le carceri nazionali a quelle del regime degli ayatollah. Ma se la civiltà di un Paese si misura anche dalle condizioni in cui versano i suoi penitenziari, beh, l’Italia non se la passa proprio benissimo.

Basta analizzare i numeri che, si sa, hanno il pregio di non mentire mai. Il sovraffollamento medio sfiora il 150%, con picchi del 225 a Milano San Vittore, 205 a Brescia Canton Monbello, 200 a Como e a Lucca, 195 a Taranto e a Varese del 194. E il 2024 è stato caratterizzato da una drammatica sequenza di suicidi, ben 89 tra i detenuti e sette nel personale della polizia penitenziaria. Eppure, davanti a una situazione tanto drammatica e lesiva dei diritti costituzionali, nessuno sembra scandalizzarsi. Nemmeno Andrea Delmastro, sottosegretario al Ministero della Giustizia, che in estate ha visitato le carceri di Taranto e Brindisi precisando di non volersi «inchinare alla Mecca dei detenuti». E forse nemmeno lo stesso guardasigilli Carlo Nordio che continua a escludere provvedimenti ormai indispensabili come amnistia e indulto, pur di assecondare le istanze securitarie del suo elettorato.

Qualcuno, però, dovrebbe chiedersi come sia stato possibile lasciare che il problema della detenzione si incancrenisse a tal punto. La risposta è facile: politica e opinione pubblica considerano il carcere come una discarica umana e sociale. Col risultato che la detenzione non solo non rieduca, come il dettato della Costituzione imporrebbe, ma si trasforma in una sorta di “università del crimine”, dove i detenuti coltivano rapporti e covano sentimenti che inevitabilmente li inducono, una volta usciti di cella, a delinquere nuovamente.

Come se ne esce? Piaccia o meno, le condizioni in cui versano le celle impongono l’adozione di misure emergenziali come amnistia e indulto. Ciò che è davvero necessario, però, è un cambio di mentalità che porti a considerare il carcere come extrema ratio e a evitare che la pena si trasformi in quel “trattamento inumano o degradante” espressamente vietato dalla nostra Costituzione. A meno che qualcuno non voglia seguire l’esempio, non proprio edificante, del regime degli ayatollah.

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