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L’appartenenza a una comunità può essere distruttiva

Si è svolta, come al solito pacificamente, presso la simbolica sede della circoscrizione di via Trevisani, la manifestazione delle comunità bengalesi residenti nel quartiere Libertà, che insieme agli amici somali, indiani, eritrei e di altre origini hanno chiesto al Comune un intervento chiaro in materia di ordine sociale e sicurezza dopo i recenti fatti di cronaca che annoverano negli ultimi due mesi più di venti aggressioni ai danni di cittadini stranieri. A sostenerli una rete costituita da più di trenta associazioni di varia estrazione e provenienza.

Sulla riuscita della manifestazione – un chiaro esempio di civiltà e cittadinanza attiva – non parlo, a ribadire che quello della sicurezza non è un problema etnico o politico ma culturale e sociale: addirittura familiare, se si considera che un gruppetto di balordi minorenni evidentemente non educati al rispetto, furoreggia con violenza per le strade del quartiere nel cuore del capoluogo pugliese. E non ripeto nemmeno che la violenza nasce sempre dall’ignoranza, per cui una sana opera di educazione di strada con tanto di mediazione culturale è forse una soluzione non solo possibile ma anche urgente.
Mi limito a riportare due episodi collegati a questa manifestazione. Il primo: in un negozio della zona, dove nei giorni precedenti era stata affissa la locandina della manifestazione, alcuni “baresi purosangue” si sono infilati intimando al padrone della bottega di eliminare la locandina, perché «gli stranieri se ne devono andare e basta».

Oltre al trivio di provenienza di questi baresi, c’è l’assurdo dell’ignoranza su un fenomeno che coinvolge tutti. Poveri loro, non cambieranno certo la rotta dell’immigrazione.
Il secondo: uno dei relatori della manifestazione, che si è orgogliosamente presentato come ormai cittadino italiano, ha inchiodato una verità fondamentale, ovvero che la povera gente straniera nel quartiere Libertà non sta meglio della povera gente italiana. Ovvero la povertà è per tutti, senza gerarchie.

Ed è questo il punto. Si tratta di due esempi di appartenenza diversi: uno distruttivo, l’altro costruttivo. È ovvio che io preferisco il secondo, quanto meno perché difende veramente i “confini” di uno Stato civile da una serpe violenta e malvagia che coltiviamo dentro la peggiore baresità. Ma forse per questa fede potrei essere condannato, per sussistenza di reato di apologia di indifesi, di ogni razza e colore.

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