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La Cultura non può continuare a essere soltanto un ornamento della Politica

Non c’è alcuno straniero, è vero, in uno Stato che è esso stesso estraneo all’istituzione della sua Cultura. Una istituzione che è oggi pregna della stessa polvere che copre un soprammobile antico e obsoleto quale il nostro ministero della Cultura. Ma è l’allergia alla polvere forse il vero ostacolo dello Stato per l’investimento alla Ricerca che manca ben prima della riforma Renzi 2015, anni in cui dal piano della Cultura si era già dissociato quello della pubblica amministrazione, e nella fattispecie quello del Collegio dei ministri.

Ci precede da quasi un ventennio l’ignominia del divorzio tra la Cultura e la Politica, il quale non è affatto un discidium, cioè un “allontanamento”, ma un vero e proprio tradimento del sangue che ha dipinto la genesi della nostra Repubblica democratica. Un divorzio quindi sororale, e non tra soggetti creduti promiscui, la causa di quella che Norberto Bobbio aveva individuato in un impensabile 1955 di una cosiddetta «filosofia della elusione» che evade ogni attinenza civile dall’istruzione.

Quando Bobbio parlava di una classe politica che ha smesso ormai di essere l’apice intellettuale della società, non aveva ancora assistito ai “rovesci morali” che quel clima diffusore di precoci maltempi pedagogici avrebbe portato nella storia di longue durée.

Principale ma non reale meteora della crisi istituzionale odierna è la perseveranza statale dell’insolvenza ai fondi per la Ricerca, i quali costituiscono tuttora una esecrabile lacuna profonda quanto l’insufficienza strutturale dell’università italiana.

Investire per la Ricerca è percezione nel corpo esecutivo più che d’una emergenza trascurabile, bensì d’una obbedienza formale ad un voto di beneficenza alle sedi che devono pertanto essere grate e devote al loro benefattore se ancora evitano per disuso funzionale il crollo.

Queste sedi sono le nostre università, gli antichi templi di un dissacrato sapere che si reggono in piedi per carità concessa dal voto partitico.

Dunque se l’istituzione universitaria è sfiduciata dall’insipienza politica in un massacrante processo di esautoramento e asservimento al pubblico ordinamento di cui è essa pur responsabile per priorità di fondazione, si giustificano le eterodossie ministeriali della maggioranza e le armocromie legislative della minoranza di fronte alla crepa della democrazia.

Come non giustificare allora il «nuovo Ministero della Cultura» di Alessandro Giuli proclamato dall’ultimo “Decreto Cultura” approvato nel mese di dicembre 2024 in favore di una lunga serie di finanziamenti che vanno sì a riparare i tagli dell’editoria, le bruciature del sistema museale e bibliotecario, ma non certo vanno a restaurare e bonificare le fratture dell’edificio universitario, che è il paradigma da ripristinare alla base della piramide dello Stato.

Per uno Stato come quello italiano che ha avuto una secolare gestazione istituzionale eseguita per acquisizione analogica dei paradigmi morali derivati dagli statuti accademici medievali, e per composizione metodologica della ricerca democratica derivata dalla libertà intellettuale della critica politica, costituisce un paradosso quasi costituzionale l’inadempienza dello Stato al ius universitatis.

Laddove infatti quel ius declina la bivalente idea dell’universalità civile e dell’università pubblica, il “Piano Olivetti per la Cultura” entra in collisione non solo con quanto il Capo dello Stato ha appena assicurato alla “cosa pubblica” all’Università per Stranieri, ma soprattutto rende ancora più straniera la democrazia alla repubblica, se la Cultura continua ad essere soltanto un ornamento della Politica, e non il suo fondamento.

Ma si è detto anche che questa meteora scagliata dall’universo politico a quello sociale è la principale ma non reale causa del nostro maltempo istituzionale.

Se la classe dirigente attuale stende ogni giorno il manifesto della sua intolleranza alla classe docente, ma anzi è disposta a denunciarla proprio per l’esercizio del suo ruolo pubblico affidatogli dallo Stato, lo stesso Ente per cui anch’essi siedono agli scranni di Montecitorio, è riferibile al significato che porta in sé il termine anacronistico di “corporativismo”.

Un ricorso anche questo a un duplice stadio della storia, in due spazi temporali diversi e in due stagioni umane differenti, quali la Repubblica fiorentina dei Medici e la Repubblica totalitaria dei Duci, due tempi in cui la politica era stata o separata completamente dalla cultura oppure soggiogata interamente da essa, fino a divenire una ideologia.

Un corporativismo che acquista terreno quando la componente più attiva e più acclamataci invidiosamente dall’Europa e dall’Estero degli anni ’70, la più antica e più prestigiosa nello scenario internazionale, forse solo concorrente a quella tedesca, quale la critica accademica italiana, quella di Luperini, o di Kelsen, o di Russo ad esempio, cessando la sua opposizione nel dibattito pubblico, ha esonerato l’altare della politica dalla sua correzione costituzionale.

La scomparsa lenta e comunque improvvisa della critica italiana nella fine del secolo, ha avviato all’interno delle arterie istituzionali un meccanismo degenerativo e autodistruttivo, incapace di facoltà autocensoria, priva del vero contrappeso all’azione del Governo, e scevra di quell’incarico etico di cui parlava Moro per il Parlamento, ossia la lezione elettiva del lettore.

Guardando a una Costituzione, che Aristotele chiamava non a caso Politeia, senza le camere delle Istituzioni, avremo la stessa Repubblica plutocratica di cui Trump ci sta fornendo l’esempio, svestita quindi della sua anima democratica ed estranea alla sua stessa libertà ispiratrice. Lo Stato non deve essere l’assolutore della Politica, ma deve esserne il risolutore equanime della Società, rischiando altrimenti l’insolvenza dei doveri garantiti dai suoi diritti.

In Italia se la Cultura prosegue il cammino dell’esilio dalla Politica, la nostra Repubblica smetterà l’abito della democrazia, e noi saremo stranieri ai nostri diritti.

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