Qualcuno vorrebbe mandarla in soffitta e spianare la strada al salario minimo stabilito per legge. Ma siamo sicuri che la contrattazione collettiva sia un “arnese” da rottamare senza se e senza ma? Gli ultimi dati diffusi dall’Istat in materia di retribuzioni contrattuali suggeriscono l’esatto contrario e, anzi, sottolineano la necessità di rafforzare la contrattazione collettiva ed eventualmente di supportarla con l’indispensabile innovazione sociale.
Partiamo, come sempre, dai numeri. In un anno le retribuzioni contrattuali sono cresciute mediamente del 4%, con un aumento tendenziale di 4,6 punti dell’industria, di 4,1 nei servizi, di appena 1,5 nella pubblica amministrazione e addirittura di 11 nel settore di credito e assicurazione. Complessivamente la crescita dei prezzi al consumo risulta superata di due punti, a conferma del progressivo recupero del potere d’acquisto da parte dei salari. Insomma, una buona notizia per tutti gli italiani e, in particolare, per quelli che vivono e lavorano nel Mezzogiorno, dove le retribuzioni sono tendenzialmente più basse rispetto ad altre aree del Paese.
Sempre i numeri, però, rivelano i problemi. E cioè che i 46 contratti collettivi oggi in vigore coprono soltanto il 47,5% dei dipendenti, pari a 6,2 milioni di persone. E i contratti collettivi in attesa di rinnovo sono addirittura 29 e riguardano 6,9 milioni di dipendenti. In altri termini, circa la metà dei lavoratori attende il rinnovo dei contratti collettivi. E chissà quanto tempo dovrà aspettare, visto che il tempo medio di rinnovo è di oltre 18 mesi, comunque in discesa rispetto ai circa 32 registrati a settembre dello scorso anno. D’altra parte, come Dario Di Vico ha opportunamente osservato sulle pagine del Foglio, il rinvio del rinnovo di numerosi contratti collettivi riflette la debolezza delle parti datoriali e il declino della rappresentanza sindacale, quest’ultima ulteriormente indebolita dall’ormai evidente spaccatura tra le sigle della Triplice.
Ma perché sulla contrattazione collettiva bisogna avanzare e non indietreggiare? Il primo motivo è quello rivelato dalle rilevazioni effettuate dall’Istat: seppure con estrema lentezza e in misura non sempre corrispondente alla galoppata dell’inflazione, i contratti collettivi restano lo strumento principale attraverso il quale si può garantire ai lavoratori un aumento di salario tale da compensare (almeno in parte) il rialzo dei prezzi al consumo. Il che non esclude, ma consente quantomeno di procedere con prudenza alla sperimentazione del salario minimo in settori come quello dei servizi low cost o del cosiddetto “salario minimo milanese” sostenuto dal think thank Tortuga: si fissa una soglia in base al costo della vita in una data località e si invitano le imprese ad adeguare, su base volontaria, la paga minima a quel livello.
In più, la contrattazione collettiva è il più efficace antidoto ai contratti pirata che fissano condizioni contrattuali meno favorevoli per i lavoratori, a cominciare dalla retribuzione.
Prima di rottamare la contrattazione collettiva, dunque, sarebbe il caso di avviare una riflessione. Non solo su questo specifico strumento, ma anche sulla necessità di restituire la necessaria forza alla rappresentanza sindacale così come alle parti datoriali. Le vie dei salari sono tante e, sebbene non riesca a essere universale né maggioritaria, quella della contrattazione collettiva resta la strada maestra.