Non passino inosservate due iniziative svoltesi recentemente a Napoli: l’assemblea pubblica degli industriali, con l’intervento della premier Giorgia Meloni, e la kermesse dell’Ecr – il gruppo europeo dei conservatori – ha visto Fratelli d’Italia celebrare ancora una volta il «nuovo interesse per il Mezzogiorno». Il Sud, ancora una volta, come vetrina. O meglio: come passerella di promesse, narrazioni autocelebrative, slogan logori. Una sceneggiatura rodata, oggi tinta di toni trionfalistici. Parola d’ordine? Rinascita. Il Sud sarebbe «al centro dell’agenda», «rivalutato« da una gestione oculata del Pnrr, beneficiario di una «strategia intelligente di coesione territoriale».
Meloni, nel videomessaggio, rivendica una «visione di lungo periodo», strumenti come il Piano Mare e la Zes unica, «paradigma di un Sud che non chiede assistenzialismo». Alcuni insistono da mesi su un “cambio di paradigma” che, a forza di essere proclamato, suona come excusatio non petita per una narrazione inventata. Il ministro Tommaso Foti – lo stesso delle aree interne dichiarate «irreversibilmente compromesse» – ha parlato di un pacchetto da 125 miliardi per il Sud: cinque leggi di bilancio, tutte dedicate al Mezzogiorno. L’altro ministro Nello Musumeci, che solo pochi mesi fa attribuiva il mancato sviluppo alla «rassegnazione» e al «familismo», oggi celebra gli imprenditori: «Fare impresa al Sud è come camminare a piedi nudi sui vetri». Curioso per un siciliano, ex presidente della Regione. Peccato che la realtà non passi da queste platee.
Chi conosce davvero il Mezzogiorno – soprattutto le aree interne, dall’Irpinia alla Basilicata, dal Molise all’entroterra calabrese – sa che parlare di rinascita è quasi offensivo. Spopolamento crescente, giovani in fuga, scuole che chiudono, ospedali ridotti all’osso, infrastrutture ferme agli anni Settanta. E i trasporti: treni lenti e rari, autostrade mai completate, territori isolati.
A ciò si aggiunge un dato strutturale che dovrebbe far arrossire ogni governo: la sistematica sottrazione di risorse al Sud. Altro che Pnrr come riequilibrio. Si è fatto, e si continua a fare, l’opposto: fondi strutturali europei, pensati come aggiuntivi, usati invece in sostituzione dei fondi ordinari, spesso dirottati al Nord. Un trucco contabile che ha congelato lo sviluppo del Mezzogiorno. I numeri parlano chiaro: meno fondi per scuola, sanità, welfare. Meno investimenti pubblici pro capite. Meno infrastrutture. Eppure, ciclicamente, si torna a Napoli, a Bari, a Palermo, a promettere «nuova centralità del Sud». Parole, non fatti.
Non è un caso che, mentre si intonava l’ennesimo inno al «Sud che ce la fa», sia calato il silenzio sui quattro referendum promossi dalla Cgil: strumenti non rivoluzionari, ma pensati per affrontare nodi cruciali del lavoro (appalti al massimo ribasso, licenziamenti illegittimi, precarietà, tutele cancellate). Temi ignorati da chi oggi esalta la “dinamicità” delle imprese come panacea.
Ma che tipo di dinamicità? In troppe zone del Sud essa significa sommerso, sfruttamento, mancanza di sicurezza, turni massacranti, assenza di rappresentanza sindacale. Si parla di sviluppo, ma si tace su imprese che, pur ricevendo fondi pubblici, operano su modelli opachi e predatori. Emblematico il caso Loro Piana – anche se non localizzato al Sud – ma rappresentativo di un agire comune da Nord a Sud: sotto amministrazione giudiziaria per aver ignorato irregolarità nei subappalti. Casi simili hanno riguardato altri brand molto conosciuti: non aziende criminali, ma marchi che si sono “voltati dall’altra parte”. Intanto, operai “invisibili” lavorano a ritmi insostenibili e salari da fame. La sicurezza nei subappalti – tema centrale dei referendum – resta una chimera.
Tornando al Mezzogiorno e al peana collettivo del Governo, è difficile non provare nausea. Non è solo retorica: è manipolazione del dibattito. Si finge di guardare al Sud, ma lo si usa come sfondo per il potere, come contenitore di consenso da svuotare. Qualcuno cita i dati Confindustria e Svimez: negli ultimi anni, il Pil del Sud è cresciuto più di quello del Nord. Ma si tratta di un sorpasso passivo: il Sud non corre, arretra solo meno. Non è sviluppo, è contenimento del danno. Un’illusione utile a coprire l’assenza di visione strategica.
La stessa Svimez lo dice con chiarezza: serve una politica di sistema. Recuperare la centralità mediterranea, investire nelle transizioni energetica e climatica, puntare sulla rigenerazione urbana, arginare la crisi demografica, affrontare il trend occupazionale segnato da sottoutilizzo del capitale umano e precarietà diffusa. Esattamente ciò che il governo Meloni si guarda bene dal fare. Al Sud servono risorse, ma anche volontà politica, idee, visione. Una strategia d’insieme che lo consideri per ciò che è: il secondo motore d’Italia. Rilanciarlo non è una concessione, ma un’esigenza per l’intero Paese.
Bentornato,
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