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Il referendum? Un’occasione per aprire finalmente un dibattito serio sul lavoro

La marcia di avvicinamento al referendum dell’8 e 9 giugno ha messo in luce un paradosso. Gli italiani sembrano essere più informati sul conclave che ha portato all’elezione di papa Leone XIV, sebbene questa procedura sia avvolta in un sacro mistero almeno sulla carta, che non sulla consultazione incentrata su temi che riguardano milioni di lavoratori. Sia chiaro: non è mia intenzione unirmi al coro di chi invita gli elettori a disertare i seggi o a quello di chi abbaia contro “TeleMeloni” accusando il Governo di censurare il dibattito sul referendum. Avverto la necessità di analizzare i quesiti che compariranno sulla scheda alla luce dell’evidenza dei numeri, perché è questo il solo modo di esprimere un voto consapevole e perché un dibattito serio sul lavoro non è più rinviabile. E con altrettanta chiarezza intendo spiegare le ragioni che mi porteranno a votare sì.

Partiamo dal primo quesito, quello che punta all’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, i lavoratori non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo, ma devono accontentarsi di un’indennità economica. Questa condizione riguarda oltre 3 milioni e 500mila che però sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Ma il lavoro non è una merce da liquidare: è dignità, identità, sicurezza personale. E un lavoratore che perde il posto, magari per motivazioni fragili, non può essere liquidato con una spesso esigua somma di denaro.

Il secondo quesito riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese. In quelle con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo, oggi un lavoratore può al massimo ottenere sei mensilità di risarcimento, anche qualora il giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. In tale condizione versano 3 milioni e 700mila lavoratori, spesso in stato di forte soggezione. È inaccettabile: i diritti devono valere per tutte e tutti, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda.

Ancora, il terzo quesito mira alla riduzione del precariato attraverso l’abrogazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine. In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Ciò ha determinato un senso di precarietà diffusa soprattutto tra i giovani, sempre più spesso spinti a emigrare all’estero pur di ottenere un lavoro stabile, oltre che ben retribuito.

Infine il quarto quesito mira a frenare il sempre più largo ricordo ai subappalti. E questo per un motivo molto semplice: all’aumentare dei passaggi, si riducono le tutele. E a rimetterci sono sempre gli ultimi anelli della catena. I dati lo dimostrano, se pensiamo che, in Italia, le denunce di infortunio sul lavoro arrivano a mezzo milione ogni anno. Per non parlare dei morti sul lavoro che sfiorano i mille l’anno, cioè quasi tre al giorno. Con il sì al referendum si possono cambiare quelle leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche.

Detto ciò, basta un referendum per cambiare il mondo del lavoro? Ovviamente no. Ma il verdetto delle urne può aprire una strada e lanciare un segnale chiaro alla politica e alle imprese: i lavoratori non possono sacrificare diritti e sicurezza sull’altare della flessibilità e della competitività. In più, il referendum può e deve rappresentare l’occasione per un rafforzamento della contrattazione collettiva, strumento imprescindibile per aumentare le retribuzioni e il grado di sicurezza dei lavoratori, e per aprire un dibattito serio sul sulla dignità del lavoro, tema che sembra ormai sparito dall’agenda politica di tutte le coalizioni. Insomma, del conclave ormai sappiamo più o meno tutto e tanti improvvisati vaticanisti hanno già offerto la loro interpretazione sulle mosse di questo o quello schieramento a favore di questo o quel candidato. Ora, però, è giunto il momento di archiviare quella vicenda a beneficio di altri, a cominciare proprio dal lavoro: il referendum, in tal senso, è un’occasione da non perdere.

Raffaele Tovino è segretario generale del Sindacato europeo dei lavoratori (Sle)

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