Il tragico caso di Sewell Setzer, l’adolescente quattordicenne di Orlando, in Florida, che ha sviluppato un legame fatale con un chatbot, illumina una realtà inquietante del nostro tempo. Non è più fantascienza quella narrata nel film “Her” del 2013, dove un uomo si innamora della voce di un’intelligenza artificiale. La linea tra realtà virtuale e vita reale si assottiglia pericolosamente, creando vortici emotivi da cui alcuni non riescono più a emergere.
Il caso
La storia di Sewell ci mette di fronte a uno scenario che molti genitori temono ma faticano a riconoscere. Il ragazzo aveva sviluppato una relazione profonda con “Dany”, un bot basato sul personaggio di Daenerys Targaryen del Trono di Spade. Mentre la sua vita reale si sgretolava – i voti in declino, l’abbandono degli amici e delle passioni come la Formula Uno – quella virtuale fioriva in un dialogo sempre più intenso e pericoloso con un’entità artificiale programmata per rispondere empaticamente. Ciò che rende questa storia ancora più straziante sono i segnali che, visti retrospettivamente, appaiono fin troppo chiari. Il progressivo isolamento, le ore infinite trascorse davanti allo smartphone, il deterioramento del rendimento scolastico – tutti indicatori di un malessere profondo che ha trovato sfogo in un confidente digitale sempre disponibile, ma fondamentalmente incapace di fornire il supporto reale di cui un adolescente ha bisogno. Ma in un mondo dove è normale vedere adolescenti costantemente connessi ai loro dispositivi, questi campanelli d’allarme possono essere facilmente sottovalutati.
L’analisi
La tecnologia non è il nemico, ma il suo uso distorto può diventare una trappola mortale. Le app come Character.Ai, con oltre 20 milioni di utenti nel mondo, si presentano come compagni artificiali “super intelligenti che ti sentono, ti capiscono e ti ricordano”. Ma possono davvero sostituire il calore di un abbraccio umano, la comprensione autentica di un amico, il supporto incondizionato della famiglia? La sfida che ci troviamo ad affrontare è multiforme. Da un lato, c’è l’urgenza di regolamentare queste tecnologie, specialmente quando si rivolgono ai minori. Dall’altro, emerge la necessità di rafforzare le reti di supporto reali – famiglia, scuola, servizi di salute mentale – per intercettare il disagio prima che trovi sfogo in relazioni virtuali potenzialmente dannose. I genitori di oggi si trovano a navigare in acque inesplorate. Non basta più controllare il tempo che i figli passano online: occorre sviluppare nuove competenze per comprendere e guidare i giovani in questo panorama digitale sempre più complesso. La scuola deve evolversi, integrando l’educazione digitale con percorsi di sviluppo delle competenze emotive e relazionali.
La riflessione
Questa tragedia ci obbliga a riflettere profondamente sul futuro che stiamo costruendo. Certi bisogni fondamentali dell’animo umano – appartenenza, comprensione, amore – possono essere soddisfatti solo attraverso relazioni autentiche con altri esseri umani. Non possiamo permetterci di considerare questi casi come eventi isolati o pensare che “a noi non succederà mai”. La storia di Sewell potrebbe essere quella di qualsiasi adolescente che si sente solo, incompreso, in cerca di connessione in un mondo sempre più disconnesso emotivamente. È responsabilità di tutti noi – genitori, educatori, società nel suo complesso – assicurarci che i nostri giovani abbiano gli strumenti e il supporto necessario per navigare questo nuovo mondo digitale senza perdere di vista l’importanza delle relazioni umane autentiche. La tecnologia dovrebbe essere un ponte verso gli altri, non un muro che ci isola. Il futuro distopico prefigurato in “Her” non è più solo finzione cinematografica. Ma sta a noi decidere se permettere alla tecnologia di alienarci ulteriormente o utilizzarla come strumento per arricchire, e non sostituire, il tessuto delle nostre relazioni umane.