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Il 20esimo secolo? Mai concluso almeno a giudicare da guerre, disuguaglianze e diritti negati

Il secolo ventunesimo? Avrebbe dovuto aprire il terzo millennio, dare seguito alle promesse del ventesimo secolo, mettere definitivamente la sordina alle sue paure e sciogliere le vele verso il tempo nuovo, il tempo della creatività, la lunga stagione di un nuovo rinascimento, tutto giocato sulla scienza, la poesia, il dialogo intimo e serrato quanto proficuo tra uomo e universo. Gli orizzonti lasciati intravedere dalla fisica dei quanti indicavano una realtà variegata e molteplice, intrigante, capace di far cadere vincoli e barriere legate alla visione rigida e meccanicistica delle regole che sembravano disciplinare l’evoluzione dell’universo.

Le conseguenze delle guerre e delle ideologie che negavano la dimensione comunitaria dell’umanità, lasciavano immaginare un desiderio di amore e compassione senza limiti ed infingimenti. L’arte e la letteratura, la musica, rimaste al palo, dopo le grandi esplosioni di inizio secolo, come folgorate dalla passata grandezza, sicuramente avrebbero ripreso il travaglio interiore e, come era successo per l’avvio del ventesimo secolo, avrebbero illustrato il nuovo secolo con linguaggi, opere, invenzioni e respiri di analoga consistenza tali da porre le basi per il nuovo percorso millenario.

Invece il ventunesimo secolo, dopo un quarto del suo percorso, mostra ancora un volto anonimo, un carattere senza nerbo, una fantasia bloccata e priva di idee, prigioniero del disincanto, del cinismo ovunque dominante, vittima dell’incrocio del personale interesse di chi comanda e del tornaconto di chi obbedisce.

Siamo al primo giro di boa, quello dei primi venticinque anni. Cosa resta? Cosa è successo sul piano sociale, su quello politico, su quello degli equilibri geo-politici, sul piano dei paradigmi economici? Sul piano artistico, letterario, scientifico, anche. L’impressione è che questo secolo avanzi stancamente con lo sguardo pervicacemente rivolto all’indietro, prigioniero del secolo ventesimo, o per meglio dire di quanti nati e giunti alla maturità nel ventesimo secolo, ne hanno segnato il corso sul versante politico, sociale, economico, culturale.

L’impressione è che esso sia ostaggio di quanti, tradendo le loro stesse visioni, hanno preteso di estendere la propria esistenza e dilatare la propria influenza, il potere, lo Stato ed il ruolo a seconda della posizione conquistata oppure occupata, estroflettendo a dismisura il proprio spazio in un tempo che, storicamente ma anche fisiologicamente, non apparteneva loro. Il mondo nel ventunesimo secolo è infatti dominato da settantenni/ottantenni e, laddove si affacciano esponenti delle nuove generazioni, questi mostrano per intero il loro carattere di epigoni ben ammaestrati di quelli.

Così, a dispetto della definizione di secolo breve, il discusso, controverso, schizofrenico, violento, aberrante e guerrafondaio, grandioso, immaginifico, creativo secolo del Novecento, che si era visto assegnare sin dalla fine della seconda guerra mondiale, allorché fu evidente che un’epoca storica si era chiusa ed un’altra si era aperta gravida di promesse e di speranze ed anche di certezze su ciò che non sarebbe mai più dovuto accadere, è sopravvissuto a sé stesso invadendo il tempo del ventunesimo secolo. In termini di genocidi, di liberticidi, di violenze e sofferenze, dittature e guerre, di negazione dei diritti dei popoli e degli individui.

L’umanità l’aveva scampata bella nel secolo scorso. La deriva nazifascista era stata lì lì per sopraffarlo, il mondo, e ci erano voluti più o meno vent’anni di clandestina opposizione/resistenza/presa di coscienza, sei anni di guerra conclamata, decine e decine di milioni di morti per venirne a capo. Poi negli anni Cinquanta, messasi alle spalle la paura, il Novecento era stato invaso da una incontenibile voglia di riscattarsi, correre verso lo sviluppo, la ricchezza, la felicità, la conoscenza e la cultura. La libertà in una parola. Ed il secolo ventesimo sembrò addirittura anzi tempo destinato a finire suo malgrado per lasciare spazio al corso o alla corsa di un nuovo tempo scevro dagli orrori e dagli errori che l’avevano segnato.

L’attesa del ventunesimo secolo prese a divenire spasmodica tanto da volerne anticipare l’avvento con il ripudio delle guerre, la solidarietà dei popoli e degli individui. I grandi raduni dei giovani negavano ogni deriva violenta in ogni parte del mondo. I ragazzi la facevano da padroni, nelle scuole e nelle università, nelle piazze e nelle fabbriche e si dichiaravano fratelli in ogni dove ed a prescindere.

A prescindere dalla cultura, dalla religione, dalla storia, dalla geografia, dai regimi politici, dalla democrazia e dal comunismo. L’internazionalismo della musica, della poesia e della letteratura, della fratellanza e della sorellanza avevano preso a dominare il mondo. Addirittura la povertà sembrava destinata a scomparire sconfitta dalla solidarietà dei popoli, dalla corsa allo sviluppo ovunque innescata. Menestrelli e poeti, musicisti e viaggiatori, imprenditori, tecnici ed operai si muovevano ovunque a loro agio, lasciavano i loro luoghi di origine per attraversare il pianeta e seminare ovunque idee di bellezza, di integrazione e di crescita.

La parola d’ordine era “felicità” per tutta intera l’umanità. Laddove il comunismo aveva rivelato il suo lato oscuro, si attendeva come necessario il suo crollo. Laddove il capitalismo aveva dato vita a degenerazioni neo-coloniali o addirittura dittatoriali, si praticava la condanna unanime dei popoli che scendevano in piazza e avrebbero costretto l’America a lasciare la sua pressa in Vietnam ed ovunque la libertà era stata violata, dal Sud America all’Europa.

I ragazzi e le ragazze nate dopo la guerra, frutto della straordinaria voglia di vivere dei loro padri e madri che avevano dovuto attraversare gli orrori di quella guerra e subire le violenze, le tragedie, le privazioni che quella aveva reso inevitabili, avevano preso a correre con il vento tra i capelli, a studiare, a crescere, lavorare, ad amare senza limiti. Vi era la certezza che gli orrori messi alle spalle dai loro genitori non si sarebbero mai più ricreati.

Il cinema, il teatro, la letteratura, la musica, l’arte ne evocava la portata e la dimensione catartica. Sembrava che ogni traguardo fosse alla loro portata. Traguardi di liberazione dagli stereotipi, dai conformismi, dalle omogeneizzazioni del potere sconfitto. Anche i muri fisici, come quello che aveva diviso in due Berlino o quelli immaginari che avevano separato Occidente ed Oriente, Nord e Sud venivano considerati un accidente temporaneo. E gli studenti e gli operai erano comunque pronti a sfidare ogni potere ed ogni aberrazione di esso.

L’invasione sovietica dell’Ungheria e poi quella della Cecoslovacchia avevano infuso un sacro furore ovunque e la certezza che anche da quella parte la libertà avrebbe prima o poi trionfato. A Praga, dopo il rogo di Jan Palach, i ragazzi, sull’isola di Kampa a due passi dal Ponte Carlo, avevano preso a dipingere il Muro di John Lennon riempiendolo di graffiti, di colori, di immagini e di messaggi tutti protesi in quella direzione. Milan Kundera aveva portato in Europa le sofferenze e le attese di quei ragazzi. Bohumil Hrabal era rimasto a tenere accesa la protesta e la ribellione di quei ragazzi e di tutto intero il popolo cecoslovacco ed ovunque, dall’Ungheria alla Germania est, alla Russia quegli stessi ragazzi avevano preso a tessere la loro libertà in vista della liberazione.

In Asia, dalla Cina al Vietnam cresceva un fermento irrefrenabile verso il riscatto e le ultime roccaforti fasciste in Europa crollavano con la rivoluzione dei garofani in Portogallo e con un paziente lavoro di intarsio tra libertà e democrazia in Spagna. Anche le dittature sudamericane, epigoni tardivi di un capitalismo ottuso e retrogrado vivevano in uno stato di totale isolamento nell’opinione dei popoli di tutto il mondo.

La corsa verso il futuro appariva sempre più inarrestabile. Anche la lotta alla fame non conosceva quartiere. La musica popolare abbatteva ogni frontiera, la poesia e la letteratura d’avanguardia non conoscevano limiti. Dall’America Latina agli Stati Uniti, dalla Russia all’Europa era una fioritura impetuosa. Era come una primavera planetaria che non poteva essere fermata nonostante il volto truce delle dittature che, come bubboni di una peste condannata dalla stessa storia del ventesimo secolo, continuavano qua e là a violare i diritti delle persone e dei popoli. Avanzava il villaggio globale come frutto della consapevolezza, nata a ridosso della guerra nazi-fascista, che l’Umanità fosse una e indivisibile ovunque essa vivesse. Cadevano uno ad uno gli ostacoli, le frontiere.

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