Nella lingua italiana sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale: sentinella e guardia sono grammaticalmente femminili, ma i mestieri soprattutto per maschi. Altri nomi sono ambigeneri (autista, dentista, giornalista, atleta, artista, mendicante, dirigente). Il genere, evidentemente, non è soltanto una categoria grammaticale, ma, al contrario, è una categoria semantica.
Oggi il problema di genere è di stringente attualità, visti i grandi cambiamenti del ruolo delle donne nella società moderna. In passato, il maschilismo costitutivo della società rendeva molto improbabili certi mestieri per una donna, con la conseguenza che nemmeno si poneva il problema di declinarli al femminile. Siccome nessuna donna faceva il medico, l’avvocato o l’ingegnere o il fabbro o il sindaco non si poneva la questione di questi nomi al femminile.
Il crescente ingresso delle donne in nuove professioni o incarichi, in passato esclusivo predominio degli uomini, comporta l’uso di nuove forme e apre nuovi interrogativi. Se per certe professioni o condizioni non vi è alcuna renitenza al femminile (professoressa, baronessa, contessa, duchessa, principessa, ambasciatrice, direttrice, scrittrice, pittrice, attrice), per altre possono sorgere dei dubbi: sindaca o sindachessa? Soldata o soldatessa? Avvocata o avvocatessa? Architetto o architetta?
L’accesso delle donne ad attività, professioni e ruoli istituzionali tradizionalmente occupati dagli uomini, rappresenta un passo importante verso il raggiungimento della parità sulla scala sociale. È un dato di fatto, tuttavia, che il linguaggio corrente non sempre è coerente con i cambiamenti degli ultimi anni, per cui molte donne non si riconoscono più nelle parole e nelle immagini della consueta comunicazione tradizionale, ritenuta, spesso non a torto, piuttosto maschilista.
Negli ultimi tempi si moltiplicano le iniziative tese a promuovere l’uso di titoli professionali declinati al femminile. Nel 1994, l’allora ministro per la funzione pubblica Sabino Cassese promuoveva il Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Il Codice dedicava un intero paragrafo all’Uso non discriminatorio e non sessista della lingua, con una serie di raccomandazioni, raccolte in 9 punti, allo scopo di promuovere l’uso di espressioni alternative, più egualitarie, che possano incontrare il consenso della comunità dei parlanti e rispecchiare tanto i cambiamenti già radicati nella realtà sociale quanto quelli in fieri.
È un dato di fatto che ancora oggi vi sono resistenze, anche da parte dei media, nei confronti dell’uso del femminile regolare in riferimento a donne che svolgono funzioni un tempo esclusivamente maschili: la chirurga e l’avvocata, la sindaca e la ministra, la giudice e la presidente sono femminili perfettamente regolari, ma stentano ad affermarsi. La stessa resistenza, sia pure per ragioni diverse, si rileva nel linguaggio della Pubblica amministrazione. È chiaro che se non si comincia a dire la direttrice generale o la ministra quando è una donna a svolgere tali incarichi, sarà difficile superare il pregiudizio per cui si tratta di incarichi prettamente maschili. Parimenti, cominciare a dire le studentesse e gli studenti o il docente e la docente o il revisore e la revisora, è un modo concreto per rafforzare e diffondere la cultura dell’inclusione e del rispetto delle differenze.
Secondo la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica – Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011- ratificata dall’Italia con L. n. 77/2013, un vero cambiamento culturale, basato sul superamento di pregiudizi e stereotipi, è possibile solo riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne.
Il richiamo alla necessità di usare un linguaggio non discriminatorio è ormai oggetto di atti ufficiali, come la Direttiva del 23 maggio 2007- Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche, emanata per attuare la Direttiva UE 2006/54/CE, in base alla quale le amministrazioni pubbliche sono tenute ad utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) un linguaggio non discriminatorio, come ad esempio usare il più possibile sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi (es. lavoratori e lavoratrici anziché lavoratori).
Il 27 ottobre 2017 il Miur ha presentato il Piano nazionale per promuovere nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione al rispetto per contrastare ogni forma di discriminazione e favorire il superamento di pregiudizi e disuguaglianze. In attuazione del suddetto Piano sono state emanate le Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR che mirano proprio alla promozione nelle scuole di ogni ordine e grado dell’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere e di ogni forma di discriminazione.
Fa piacere, a tale proposito, constatare che anche la Regione Puglia, aderendo alla campagna No Women non panel, promossa dalla Rai, è giunta alla determinazione di non concedere più patrocini ad iniziative che non rispettano la parità di genere.
Le parole sono pietre – Intitolava Carlo Levi un suo libro, pubblicato nel 1955; sono pietre che non rotolano via, ma lasciano il segno, sia in senso positivo sia negativo. Troppo spesso le parole sono usate con leggerezza, non solo da parte di certa politica, di opinionisti e di tanti altri che in situazioni professionali e non fanno un uso distorto delle parole. Le parole hanno il potere di cambiare il mondo, ma con la stessa facilità possono distruggerlo. Di parole ingiuste si può «morire»; l’unico rimedio resta l’educazione, quel tipo di educazione che gli studiosi delle scienze rilevative definiscono “Educazione emotiva”.
Si assiste, purtroppo, ancora oggi a forme di sessismo in senso misogino, in parte alimentato anche dai media, da cartelloni e messaggi pubblicitari, dove uomini artefatti e donne barbie sono rappresentati come stereotipi, elementi puramente decorativi. In molti messaggi promozionali le donne continuano a essere usate strumentalmente, seminude e in mostra per vendere ogni tipo di prodotto. Siamo continuamente circondati da messaggi promozionali caratterizzati da un linguaggio non di rado orientato alla misoginia, al sessismo, alla violenza e alla discriminazione.
Se i modelli di riferimento di gran parte del mondo giovanile sono veline e tronisti, c’è qualcosa che non va nel circuito educativo sociale. Riteniamo, in conclusione, che oggi sia assolutamente necessaria una profonda riflessione sugli stereotipi che caratterizzano la comunicazione, al fine di sviluppare nuove modalità che contribuiscano a creare nelle giovani generazioni una più consapevole e paritaria identità di genere, per correggere certe distorsioni culturali e violenze sulla persona, indegne di una società che vuole davvero considerarsi civile.