Negli ultimi tempi si assiste ad una crescita esponenziale degli episodi di violenza scolastica, perlopiù in forma di aggressioni ai danni di docenti e personale scolastico. Non manca giorno che la cosiddetta “cultura osservante” non riempia i propri notiziari e le proprie pagine di tali segnali ammonitori di forme di alienazione sociale, soprattutto fra gli adolescenti; segnali che chiamano i vari contesti sociali ad un’assunzione di responsabilità.
L’esigenza di venir fuori da una incipiente crisi sociale, una crisi che, se non controllata, rischia di degenerare in ulteriori forme di lacerazioni del tessuto sociale.
Quali le cause di tali forme di violenza? Si tratta di un problema complesso, che ha radici profonde: crisi dei valori e dell’educazione, con il venir meno del rispetto per l’autorità e delle regole? L’assenteismo o il permissivismo delle famiglie? Una cultura della prepotenza, spesso alimentata dall’affermarsi di modelli culturali improntati alla sfida e alla prevaricazione? Le nuove, emergenti forme di ansia e disagio giovanile, che spingono alcuni a sfogare la loro frustrazione sul personale scolastico? Una scuola che non sa gestire i conflitti e che non riesce a promuovere un ambiente inclusivo e sicuro? Le istituzioni, che non hanno fatto abbastanza o che non hanno ancora individuato i mezzi e i modi per prevenire e contrastare la violenza nelle scuole?
Quali le possibili soluzioni? Il problema della violenza nelle scuole non si risolve con una singola azione, ma con un lavoro congiunto tra tutti gli attori coinvolti, anche perché le responsabilità non sembrano stare tutte da una parte sola.
Certamente, la fragilità di alcuni studenti, la difficoltà o incapacità a gestire problematiche relazionali e comportamentali, richiedono innanzitutto una più chiara e decisa assunzione di responsabilità da parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito, che è chiamato a promuovere un programma di interventi specifici nelle scuole. Possono sicuramente giovare nuove e più decise campagne di sensibilizzazione, volte a promuovere una cultura del rispetto e della responsabilità, a rafforzare la collaborazione tra scuola e famiglia, per monitorare e correggere eventuali segnali di disagio.
Sarà anche il caso di dare, per esempio, maggiore enfasi al “Patto educativo di corresponsabilità scuola-famiglia”, come previsto dall’art. 5 bis del DPR n. 249/1998 (Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria): uno strumento che punta a stabilire un’alleanza educativa fra quelli che si configurano come i pilastri fondamentali alla base della formazione e dell’educazione delle nuove generazioni: la famiglia e la scuola, appunto; uno strumento che molte scuole utilizzano con successo.
Noi crediamo, tuttavia, che le anzidette iniziative siano una condizione necessaria ma non sufficiente. Se si vuole lavorare seriamente ad una progettualità rivolta alla prevenzione, alla sensibilizzazione e rafforzamento delle dimensioni del dialogo e della mediazione, è soprattutto necessario lavorare per affiancare alla “cultura scolastica”, una “cultura emotiva”.
È proprio questo il punto focale: ciò che oggi è carente in molte aule scolastiche, e forse anche nel tessuto sociale, è la “cultura emotiva”. È il quoziente emotivo (QE) e non già il Quoziente intellettivo (QI) che oggi gioca un ruolo cruciale nella gestione dei conflitti e nella prevenzione della violenza, non solo nelle scuole, ma anche nelle piazze, sulla strada, nei locali frequentati dai giovani.
Una buona intelligenza emotiva non aiuta solo a riconoscere e gestire le proprie emozioni, ma anche a comprendere e rispondere in modo adeguato alle emozioni degli altri. In un contesto scolastico gli studenti con un basso QE possono avere difficoltà a gestire frustrazioni, rabbia e stress, sfociando in comportamenti aggressivi. La questione investe anche il personale scolastico (non solo i docenti) con un basso QE, che possono reagire in modo rigido o poco empatico, alimentando tensioni anziché risolverle.
Si pone, in conclusione, il problema di come migliorare il quoziente emotivo nelle scuole. Perché è chiaro che solo il potenziamento dell’intelligenza emotiva potrà davvero aiutare sia a prevenire e gestire episodi di violenza sia a migliorare la qualità della didattica.
Ne deriva, allora, che la Scuola, in tutte le sue articolazioni funzionali e tutte le sue relazioni intersistemiche, deve lavorare con maggiore convinzione e determinazione su quelle strategie pedagogiche e didattiche che, di fatto, potrebbero fare la differenza.
Si dovrebbe, per esempio, lavorare di più sulla formazione dei docenti (formazione non solo didattica, ma anche sulle competenze relazionali e sugli strumenti di gestione emotiva della classe; le tecniche di gestione della rabbia e della frustrazione e strategie di mediazione dei conflitti dovrebbero diventare parte della routine scolastica. Addirittura, si potrebbe pensare all’introduzione dell’Educazione emotiva come materia scolastica. Se ci si concentrasse di più sulla crescita emotiva degli studenti (e degli insegnanti), probabilmente avremmo meno episodi di violenza e un ambiente scolastico più sano, stimolante e inclusivo.
Ci si attende, di conseguenza, che il docente di una scuola veramente inclusiva debba anche possedere capacità personali che gli consentano di assumere il ruolo di leader emotivo; un ruolo capace di controllare la propria emotività e sappia riconoscere, accogliere e gestire le emozioni degli alunni che gli sono affidati. Un docente che possiede queste capacità sarà in grado di sviluppare forme di condivisione empatica e sarà in grado di stimolare nei suoi alunni la creatività e il piacere di apprendere.
Tutti gli psicologici e pedagogisti che si sono occupati di studiare l’intelligenza emotiva, pur nella diversità di approccio, concordano sul fatto che essa può essere definita come la capacità di motivare sé stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di essere empatici, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza impedisca di pensare.
Il tradizionale concetto di QI, inteso come le capacità logico-matematiche, verbali e spaziali, risulta molto riduttivo se si utilizza come indice per prevedere il successo di un individuo nelle relazioni umane; esso non ha nulla a che fare con la soddisfazione nella vita e con la salute fisica e psicologica. L’intelligenza emotiva, in sostanza, è un fattore più potente del quoziente di intelligenza, poiché è una meta-abilità che determina quanto bene riusciamo a servirci delle nostre capacità, incluse quelle intellettuali.
Il fatto poi, che l’intelligenza emotiva, a differenza del QI, può essere acquisita e potenziata in qualsiasi fase della vita e tende ad aumentare in proporzione alla consapevolezza degli stati d’animo e contenimento delle emozioni che provocano sofferenza, al maggior affinamento dell’ascolto e della sensibilizzazione empatica, convince ancora di più sull’importanza di investire risorse e competenze per il rafforzamento delle capacità emozionali, dell’autocontrollo e dell’empatia, non solo dei nostri giovani.
Bentornato,
Registratiaccedi al tuo account
Tutte le news di Puglia e Basilicata a portata di click!