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I “deserti luoghi” di Borgna e la potenza di un sorriso

Certe notizie sul banner dell’ultim’ora ci stanno il tempo di niente. E’ accaduto anche oggi. Una apparizione. E poi il buio. In un Paese serio avremmo “pianto” un senatore a vita della Repubblica. Un servitore di questo Stato, per averne dato lustro. Si, lustro. Lustro vero, nella sua accezione piena del termine. Aver dato “nobiltà, prestigio, decoro” in un contesto in cui vince l’ossimoro e la dicotomia dei sinonimi e dei contrari. Lucentezza, brillantezza. Nulla a che vedere con il luccichìo delle ramaglie che pure si scorgono qua e là.

Eugenio Borgna era un grande italiano, uno di quelli di cui esserne fieri anche senza cantare l’inno. Lo sentii tempo addietro e la folgorazione resta per me circoscritta alla solita carta stampata, ai suoi libri e ad uno in particolare: L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil (Feltrinelli). Borgna restò impigliato – come la staffa del cavallo per san Paolo – attorno alla vita e alle opere di Simone Weil.

Ne scriveva lui stesso il modo franco, diretto: «Di anno in anno, rileggendo sempre di nuovo le sue pagine, mi sono ritrovato a essere più giovane di Simone, poi della sua stessa età, infine di un’età sempre più lontana dalla sua. Le sue pagine hanno avuto una radicale importanza nella mia formazione, nella mia discesa sempre più vertiginosa negli abissi della psichiatria».

Cruciale, anche nella interpretazione sistematica che ne dava Borgna, fu l’esperienza della fabbrica francese che Simone riporta nel diario e nelle lettere: pagine segnate dalla durezza della vita, quei “deserti luoghi” che Borgna confrontava con la dolorosa esperienza terapeutica e psichiatrica, lasciandogli «tracce luminose e strazianti nella memoria».

Sono quei deserti a segnare innanzitutto la conoscenza di noi stessi: «non c’è conoscenza se non nel solco del dolore», come si ricordava nel suo “Le intermittenze del cuore”; ma quei deserti luoghi diventano anche l’angolo prospettico per guardare il mondo: Eugenio Borgna vi scorge, infatti, la «reificazione dell’umano» che trasforma i soggetti in cose.

Quel mondo – la «reificazione dell’umano», appunto – sono anche i confini perimetrali delle nostre vite, delle nostre solitudini. Sono la marginalità dei ragazzi, il dolore e il disagio degli adolescenti che spesso diventa sofferenza psichica che devasta famiglie e comunità. Sofferenza non vista, non pervenuta, come uno sciame sismico inutile.

Già, la psichiatria. Secondo Borgna dovrebbe essere «una lampada silenziosa, che ridia un senso a quelle che sono le nostre condizioni di vita»; anche in questo caso, forte della esperienza di Basaglia, pone un aut aut che non conosce terze vie: «La psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria… scienza umana e non solo scienza naturale».

Sullo sfondo, quale risposta tanto necessaria quanto paradossale, l’indicibile tenerezza.

Ricercare nella ferocia del presente la tenerezza della timidezza che, paradossalmente, «è uno dei modi, come la fragilità, che ci avvicina al mondo di oggi, nutrito di indifferenza e di violenza, con una grande pace interiore, e con un sorriso, che aggiunge un filo alla brevissima tela della nostra vita».

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