La sveglia non suona: esplode. E così comincia un’altra giornata nel telegiornale permanente chiamato Foggia. Ogni mattina una nuova puntata: baby gang, lanci di sassi, ambulanze prese a pugni. La violenza qui non interrompe la quotidianità: la accompagna, come il caffè al bar o il traffico su viale Candelaro. Non servono fiction né registi. Basta aprire la finestra. Fuori c’è la solita scena: un ragazzo pestato “per noia”, autobus assaltati “per gioco”, gli operatori di un’ambulanza aggrediti e la solita muta rassegnazione collettiva.
A Foggia la violenza è diventata parte dell’arredo urbano: c’è chi ha il vaso di fiori sul balcone e chi ha la rissa sotto casa. Si parla di “disagio giovanile”. Ah, che dolce eufemismo! Suona come una poesia di fine adolescenza, invece qui il disagio non è sentimento, è geografia. Non è un malessere passeggero, è un buco nero con vista su TikTok. I ragazzi non sognano un futuro, ma una diretta virale. Non cercano un senso, ma un algoritmo che li premi con cuoricini. E mentre il degrado si filma, l’educazione si dissolve, come la pazienza di chi ancora ci crede. E i genitori? Qualcuno non sa, qualcuno finge, qualcuno recita il classico: “non è mio figlio, sono gli altri”. Gli altri, ovviamente, sono sempre gli altri. Le istituzioni invece promettono “tolleranza zero” con la convinzione di chi sa benissimo che, tanto, fra tre giorni se ne parlerà d’altro.
La città, intanto, si fa il conteggio quotidiano: un pestaggio, due pestaggi, tre pestaggi. Sembra una serie TV prodotta da chi ha finito la fantasia ma non la violenza. Ogni episodio finisce uguale: indignazione social, fiaccolata, dichiarazione del sindaco, silenzio.
Poi recap «alla prossima puntata». Nel frattempo i ragazzi perbene spariscono dalle piazze, e noi ci ripetiamo che è «solo una percezione d’insicurezza». Già, la percezione. Peccato che qui la paura non si immagina: si tocca, si misura, si conta nei lividi e nei vandalismi. E ha un volto, spesso minorenne o comunque giovane. Dietro ogni pugno non c’è solo rabbia: c’è un vuoto. Un vuoto che nessuna pattuglia potrà mai riempire, perché il problema non è l’ordine pubblico, è il disordine educativo. La scuola arranca, la famiglia abdica, e la città osserva come se fosse spettatrice di se stessa.
Servirebbe una rivoluzione culturale, ma la cultura non si candida alle elezioni. Non dà voti, non porta sponsor e soprattutto non entra nei bandi europei. Così Foggia, come molte altre città d’Italia, continua la sua maratona di indignazione a tempo determinato.
La città del sole e del coraggio è diventata quella del livido e del silenzio. Un posto dove l’unico sentimento civico sopravvissuto è la rassegnazione, e anche quella, a breve, verrà data in appalto. Ma tranquilli: ci diranno che è tutto sotto controllo.
Del resto, anche la paura, a forza di sentirla, diventa abitudine. E a Foggia, si sa, siamo gente abituata a tutto.













Bentornato,
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