Famiglie in transito, il tempo ha cambiato il cuore della società

Se provassimo a fare un sondaggio e chiedessimo a un campione di italiani cosa intende col termine famiglia, probabilmente avremmo risposte convergenti su due caratteristiche: la prima, il matrimonio come fondamento; la seconda, il modello nucleare come configurazione, cioè genitori con uno o più figli. Proviamo a confrontare questa idea di famiglia con i dati disponibili. In Italia, le coppie con figli sono poco più di una su tre e sono negli ultimi decenni in costante diminuzione. Le nuove forme familiari (convivenze, single non vedovi, monogenitori ecc.) raggiungono quasi un terzo del totale, con un incremento crescente negli anni. Al suo interno, le convivenze sono in continuo incremento: 6 milioni di persone le hanno sperimentate nel corso della loro vita; una coppia su tre ha convissuto prima di sposarsi e un bambino su quattro nasce in convivenze. I matrimoni sono in netta diminuzione: il 40 per cento dei quali si celebra con rito civile e nelle regioni del nord sono già la maggioranza. Le separazioni, invece, sono in crescita esponenziale: dal ’95 al 2011 sono cresciute del 68 per cento e i divorzi sono raddoppiati. La durata media dei matrimoni è di circa 17 anni: i mariti hanno 48 anni, le mogli 45 al momento della separazione. Dunque, emergono forme di vita familiari plurali.

Tre fenomeni contribuiscono a configurare gli attuali modelli familiari: il primo, una consistente denatalità che disegna una forma di famiglia snella, per cui è possibile per quattro nonni avere solo un nipote, con un andamento delle nascite ben lontano dal colmare il tasso di rimpiazzo intergenerazionale. Il secondo, l’allungamento della vita media, con una presenza più numerosa di anziani che allunga la composizione del nucleo familiare. Il terzo, l’uscita ritardata dei giovani dal nucleo familiare d’origine per ragioni legate, prevalentemente, alla difficoltà di trovare un’occupazione o di disporre di un reddito autonomo.
Tali condizioni mutano la forma dei rapporti tra i componenti del nucleo familiare: più generazioni si trovano a convivere contemporaneamente per lunghi periodi di tempo. Per spiegare le ragioni che stanno provocando il declino del modello familiare nucleare, consolidatosi nel nostro Paese appena settant’anni fa, occorre correlare i dati citati con due questioni fondamentali. La prima è l’aumento delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Indagini recenti rilevano un aumento preoccupante del numero di famiglie in stato di povertà: nel 2022 le famiglie in condizioni di povertà relativa sono 2 milioni e seicentomila, per un totale di 8 milioni e duecentomila persone. Nell’ultimo anno, un quarto (il 25 per cento) della popolazione residente in Italia ha sofferto qualche disagio economico. Oltre che tra le famiglie di operai e di lavoratori in proprio, la povertà aumenta anche tra gli impiegati e persino, sebbene raramente, tra i dirigenti e tra le famiglie dove i redditi da lavoro si associano a redditi da pensione. Aumenta la povertà, ma l’altra faccia della medaglia mostra una scandalosa concentrazione della ricchezza: il 10 per cento delle famiglie possiede il 50 per cento della ricchezza totale. La seconda questione riguarda la mobilità ascendente, ossia si è rotto l’ascensore sociale. Per mobilità s’intende l’insieme dei cambiamenti di classe sociale dei figli rispetto ai genitori nel passaggio da una generazione all’altra oppure ai cambiamenti che avvengono nel corso della vita di un individuo. Il passaggio dalla posizione di origine sociale alla nuova destinazione non è neutro. La classe sociale di origine influisce in misura ancora rilevante sulla mobilità sociale, determinando notevoli diseguaglianze nelle opportunità degli individui. Studi sociologici rilevano che le opportunità di ascesa a classi sociali superiori sono fortemente diseguali in ragione della posizione di partenza ereditata dai padri. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento le opportunità di mobilità ascendente, di cui hanno goduto i figli delle classi più svantaggiate, erano in un certo senso inevitabili: se a crescere, più che in passato, era il numero di posizioni sociali più elevate, non si poteva fare altro che abbandonare la classe di origine e salire. Essere figlio di un medico o di un operaio non è affatto la stessa cosa: le probabilità di diventare libero professionista, imprenditore o dirigente sono, nel primo caso, molto più elevate che nel secondo.
Intanto, il welfare statale è entrato in crisi e cresce, conseguentemente, l’investimento diretto delle famiglie finalizzato a integrare l’offerta pubblica nella sanità, nell’assistenza, nella formazione e nella previdenza. I lavori, all’insegna della flessibilità si fanno atipici, precari, sommersi, a bassa remunerazione e diventano sempre più privi di tutela. Alla famiglia viene attribuito, quindi, il ruolo di rete di protezione. È una famiglia “tutor” come l’ha definita il Censis qualche anno fa. Il risparmio accumulato in precedenza e la possibilità di disporre di una casa di proprietà permettono ancora (ma fino a quando?) a una quota di famiglie, in prevalenza del ceto medio, di sostituirsi ai servizi pubblici ormai insufficienti. Intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso un sociologo americano, Edward Banfield, approdò in un paesino della Basilicata per realizzare una ricerca che spiegasse l’incapacità delle famiglie meridionali di agire per il bene comune. Coniò un’espressione che è rimasta nel lessico non solo scientifico, ma anche giornalistico: “familismo amorale”, che consisterebbe nel massimizzare i vantaggi materiali e immediati del proprio ristretto nucleo familiare e di supporre che tutti gli altri facciano altrettanto. Dopo settant’anni, del familismo amorale di Banfield è rimasto poco o nulla nella maggior parte delle famiglie, meridionali o meno. In alcuni modelli familiari particolari, invece, il familismo amorale sembra ancora un ethos persistente. Fatte le ovvie differenze, si tratta delle famiglie della delinquenza organizzata, con forti legami di consanguineità e assoluta fedeltà al proprio clan familiare e di alcune famiglie dell’alta borghesia presenti nell’industria, nella finanza, nelle università e in alcune professioni. È utile ora una riflessione sul modello culturale prevalente nella società in generale e, conseguentemente, in molte famiglie. Una cultura consumistica che come sostiene Zigmunt Bauman in Amore liquido “predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e così via”. Anche l’esperienza di una relazione affettiva, sempre più spesso, diviene simile al consumo di merci: attira, seduce, promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi.

Il nostro è sempre più il tempo dei legami deboli. Se investi in una relazione occorre non impegnarsi a lungo termine. L’organizzazione familiare, qualunque sia il suo modello, rappresenta un equilibrio che si costituisce come risposta a bisogni interni – accudimento, riproduzione, sostegno – ma anche a circostanze esterne – situazione economica, demografica, di lavoro. La famiglia non è un semplice terminale passivo del mutamento sociale, ma le forme che assume ne sono una risposta rielaborata. Una visione, sin troppo benevola, che vorrebbe ascrivere a una improbabile emancipazione dei costumi e a una maggiore libertà individuale gli attuali modelli familiari deboli, sembra davvero non cogliere nel segno. Del resto basterebbe verificare cosa accade, anche nelle grandi aziende, quando una dipendente è in gravidanza o richiede il part time, per misurare il rispetto della femminilità o le possibilità di carriera. Un’ultima considerazione non può che riguardare i policy maker. Le politiche per la famiglia sono soprattutto politiche sociali. Allora perché non affrontare con determinazione le questioni di una più equa distribuzione della ricchezza; di una maggiore mobilità sociale; di un mercato del lavoro con possibilità concrete, più tutelate, meno precarie e discontinue di occupazione; di una formazione dei giovani orientata all’assunzione di responsabilità e al pensiero critico; di una riformulazione dei tempi di lavoro e di quelli dedicati alle cure domestiche. Ma per andare verso questa direzione la politica dovrebbe smettere di essere solo un aggettivo di economia.

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