L’anno 2025 chiuderà il primo quarto del nuovo secolo. Un avvento che, inaugurando il millennio Duemila, abbiamo probabilmente sovraccaricato di aspettative mirabolanti. La società italiana in questi venticinque anni ha sì partecipato al radicale passaggio d’epoca dei Paesi europei e occidentali, ma con alcune evidenti difficoltà che hanno lacerato quelle componenti del tessuto sociale che, nella seconda metà del secolo scorso, erano state le sue principali risorse: famiglia, reti territoriali e comunitarie. Di più, si è logorata anche quella capacità adattiva, fatta di flessibilità e talvolta creatività e innovazione, che per decenni ha reso il nostro Paese famoso nel mondo.
Ce lo dicono indagini e sondaggi, quasi quotidianamente: siamo risentiti, frustrati, ci sentiamo impotenti, nonostante la frenesia ansiosa che anima le nostre giornate. Viviamo immersi in un tono emotivo, non nuovo nella nostra storia nazionale, che fonde una richiesta sacrosanta di giustizia sociale con una voglia di vendetta che spesso si trasforma in accusa sommaria a supposti colpevoli di turno: immigrati, giovani fannulloni, istituzioni pubbliche o sovranazionali, e così via. Un importante mutamento sociale di questi decenni riguarda gli assetti demografici.
L’Italia è tra i Paesi occidentali col maggior numero di anziani. Vuol dire che si vive più a lungo e spesso in condizioni accettabili. Magari, sarebbe stato auspicabile che, negli anni, i policy maker avessero intrapreso politiche sociali in grado di sostenere, e anche valorizzare, le esperienze cumulate dagli italiani con più di 65 anni.
Dalla parte opposta della piramide demografica, i giovani, che decrescono e perdono centralità come soggetti sociali. La percentuale dei diplomati e laureati in Italia è ancora inferiore alla media europea. E si verifica un apparente paradosso: i giovani istruiti hanno un minor vantaggio rispetto ai non istruiti. Quelli istruiti invece hanno maggiori vantaggi nei paesi europei in cui è più elevata la loro presenza. Sembrerebbe non funzionare la legge di mercato per cui, se un bene, l’istruzione, è scarso ne trae maggiore vantaggio chi lo possiede. Il paradosso svanisce quando si confronta la composizione dell’occupazione per livelli professionali. L’Italia presenta una domanda di lavoro più orientata verso le basse qualifiche e meno verso quelle alte, diversamente da quanto accade nel resto d’Europa.
Oltre al blocco dell’ascensore sociale, meccanismo ormai desueto dell’emancipazione dei giovani meno abbienti, nel nostro paese sono persistenti forme di cooptazione nelle professioni, nelle attività intellettuali, nel sistema pubblico, fondate perlopiù su relazioni familiari e di potere. Ma quel che preoccupa maggiormente è la condizione di disorientamento dei giovani italiani che, come ci informa l’ultimo rapporto Censis, per il 60 per cento si sente fragile e solo. Mentre più del 50 per cento dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressivi. Spesso loro malgrado, i giovani sono bersaglio di genitori poco maturi e iperprotettivi, mentre ritardano sempre più la conquista di forme di autonomia: dalla conclusione degli studi all’accesso al lavoro, alla separazione dalla famiglia d’origine.
L’Italia ha circa 24 milioni di occupati su una popolazione di 59 milioni di abitanti, un rapporto che la vede distante di ben 8 punti percentuali dalla media europea, sebbene negli ultimi anni si sia verificato un discreto incremento di posti di lavoro. Che però, altra contraddizione, non ha portato a un aumento della ricchezza nazionale, che invece ristagna. La dinamica disgiunta tra maggiore occupazione, da un lato e minore reddito disponibile degli italiani, dall’altro conferma le caratteristiche di precarietà e bassi salari della nuova occupazione. Non a caso, la produzione delle attività manufatturiere è in sensibile caduta mentre il settore turistico cresce costantemente. Ma come dimostrano altri paesi e la stessa esperienza industriale italiana non è possibile, col solo turismo, avere una struttura occupazionale stabile, non stagionale, e con salari adeguati.
Dunque, al progressivo contrarsi delle aspettative di una maggiore crescita economica e sociale, gli italiani in questo scorcio di secolo appaiono disincantati, mostrando punte preoccupanti di risentimento sociale. Un humus velenoso che predispone a forme esasperate di competizioni identitarie: individuali, religiose, etnico-culturali, di orientamento sessuale. Messo in soffitta l’antagonismo di classe, il conflitto ora si disputa sulle minime differenze valoriali e di comportamento. Non è un caso se in questi anni è cresciuto l’astensionismo politico, toccando livelli inimmaginabili solo alla fine del Novecento, fino a superare il 50 per cento degli aventi diritto al voto. Mentre cresce e si consolida la sfiducia nei sistemi democratici: circa il 70 per cento degli italiani ritiene che le democrazie liberali occidentali ormai non funzionino più (Censis, 2024).
Questi tratti della società italiana delineano indubbiamente un quadro a tinte fosche. I prossimi anni saranno decisivi per il nostro Paese. La posta in gioco è alta: dall’attuale galleggiamento, che ancora ci mantiene in una zona di relativo benessere, potremmo finire intrappolati nel possibile acuirsi di questioni sociali vecchie e nuove (nulla s’è detto del dualismo Nord-Sud, dello Stato sociale che sempre più si ritrae per far posto a forme private di cura, assistenza e previdenza, delle immigrazioni, degli incerti equilibri istituzionali).
Oppure, col filo della pazienza, occorrerà che società civile, movimenti politici, associazioni possano riannodare le energie, le risorse, le intelligenze, di cui il nostro Paese ancora dispone per dipanare almeno parte di quei nodi sociali e istituzionali provando così a ridare ai cittadini, e ai giovani in particolare, un futuro ancora degno di essere vissuto.