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Difendere la lingua italiana non significa alzare barricate contro i “forestierismi”

Le lingue sono organismi viventi, in continua evoluzione; si trasformano, si adattano ai cambiamenti culturali e sociali; le influenze culturali e i prestiti linguistici sono parte integrante di questa evoluzione. Così anche la lingua italiana, nel corso dei secoli, ha subito numerose trasformazioni, passando dal latino alle sue forme volgari, fino all’italiano contemporaneo, e continua ancora oggi a evolversi, arricchendosi di nuove modalità espressive, neologismi e prestiti linguistici. Molti i forestierismi, che hanno trovato integrazione più o meno stabile nel vocabolario della lingua italiana.

È il caso degli ispanismi: alcova, baccalà, baule, baracca, borraccia, camerata, casco, corrida, feluca, gitano, goleada, golpe, guerriglia, lancia, macho, mojito, murales, paella, parata, pastiglia, pastrano, regalo, recluta, ronda, sangria, siesta, tango, telenovela, torero, vigliacco, vigilantes. Come pure sono presenti molti arabismi: alambicco, alcol, albicocca, alfiere, algebra, almanacco, ammiraglio, arancia, auge, bazar, carciofo, cifra, darsena, divano, dogana, elisir, fedain, kebab, limone, liuto, moka, nadir, nuca, sciroppo, taccuino, talebano, tamburo, tariffa, tazza, zafferano, zenit, zero, zibibbo, zucchero. Numerosi anche i francesismi, che costituiscono il gruppo di prestiti storicamente meglio radicato nella nostra lingua: abat-jour, addobbare, atelier, baionetta, balìa, barricata, barone, beauty-case, bigné, bon ton, boutique, carabiniere, chic, collant, collier, comò, consommé, conte, contea, corazziere, cravatta, cugino, dama, dardo, débacle, élite, équipe, frac, gendarme, giarrettiera, giavellotto, gilet, habitué, manicure, masnada, mèche, menestrello, moda, moquette, paladino, pamphlet, parrucchiere, pardon, parure, parvenu, pedicure, persiana, puré, ragù, roulotte, sofà, tête-à-tête, toilette, tour de force, vassallo.

Almeno una sessantina, inoltre, le parole portoghesi entrate nell’uso comune in italiano; tra le quali troviamo: bambù, banana, barocco, caravella, catamarano, cocco, fado, favela, fazenda, macaco, marmellata, saudade, telenovela, tapiro, veranda. Non mancano germanismi (alabarda, aspirina, bando, blitz, borgomastro, brindisi, elmo, fuhrer, gene, ghibellino, guardia, guelfo, guerra, lager, lanzichenecco, panzer, piffero, purina, reich, storione) o anche parole nipponiche, provenienti, in particolare, dal settore delle arti marziali (aikido, bushido, Judo, karate, kimono), ma anche in ambito sociale (geisha, harakiri, ninja, samurai, sudoku, tsunami). Le commistioni linguistiche, quindi, sono un evento necessario, oltre che utile, perché contribuiscono ad arricchire una lingua. Ma c’è un confine sottile, oggi sempre più spesso superato, tra apertura e invasione. Il crescente uso degli anglicismi ne è un chiaro esempio: parole che si moltiplicano nei media, nel linguaggio istituzionale, nella vita quotidiana, spesso senza alcuna reale necessità.

In molti casi esistono già equivalenti italiani chiari, efficaci e perfettamente comprensibili, che sono scartati in nome di un presunto modernismo linguistico. Il proliferare a dismisura degli anglicismi lungi dal costituire un arricchimento, sta portando, al contrario, a un depauperamento della nostra lingua: un vero e proprio morbus anglicus, che pervade anche molti provvedimenti legislativi e atti amministrativi. Difendere l’italiano, è bene chiarire, non significa chiudersi al nuovo, né rifiutare ogni influenza esterna; significa, invece, usare le parole con consapevolezza, valorizzare le risorse della nostra lingua prima di ricorrere a inutili alternative straniere.

Anche molti italianismi sono presenti nei vocabolari di tanti paesi; italianismi che rappresentano un segno tangibile del contributo culturale, scientifico e artistico che l’Italia ha dato (e continua a dare) alla civiltà globale. Solo per fare qualche esempio: termini riconducibili all’ambito religioso (frate, cappuccino, conclave, nunzio e nunziatura, papa, papabile, missionario, quaresima, rosario); termini che fanno riferimento a giochi (lotto, lotteria, morra, tombola, tarocchi); nel campo della musica (concerto, opera, maestro, soprano, allegro, adagio); termini scientifici (pila, neutrino); termini riferiti al settore della gastronomia (spaghetti, pizza, cappuccino, espresso, salame, bruschetta, pesto, tiramisù, carpaccio, rucola, ravioli, risotto, cannelloni), o riferiti all’ambito militare (trincea, artiglieria, maresciallo). La cosa bella da considerare è che gli italianismi si sono diffusi non per moda o per pressione economica, ma per la forza intrinseca di ciò che rappresentano: tradizioni antiche, eccellenze artistiche, valori culturali e spirituali. Questa ricchezza ci ricorda che ogni lingua ha qualcosa da offrire. L’equilibrio ideale non è quello tra chi presta e chi prende, ma tra chi sa custodire con rispetto la propria lingua e, al tempo stesso, condividerne il meglio con gli altri. Preservare la ricchezza dell’italiano, in definitiva, è un atto di cura, non di nostalgia; è un modo per rispettare la nostra storia, promuovere una comunicazione inclusiva e coltivare un’identità culturale che non ha bisogno di “mascherarsi” per sentirsi al passo coi tempi.

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