Fra i casi più eclatanti c’è l’abominio di Gaza, dove la posizione italiana è apparsa tra le più timide e subalterne: dichiarazioni generiche sul diritto alla difesa e sulla necessità di evitare vittime civili non sono state seguite da serie iniziative, né in sede Onu né nei rapporti bilaterali, per promuovere un vero cessate il fuoco o corridoi umanitari efficaci. Anche gli aiuti alimentari disposti di recente a Gaza, sono apparsi più un modo per lavarsi la coscienza che una reale attenzione alle sofferenze di quel popolo.
A sinistra, l’opposizione sembra vivere in una perenne riunione di condominio: mille discussioni, pochi risultati, e un linguaggio che non esce dalla cerchia degli addetti ai lavori. Un caso emblematico è stata la decisione circa il sostegno militare a Kiev: da un lato il governo che approvava nuovi aiuti, dall’altro Pd e M5s che hanno passato settimane a litigare fra loro sul grado di appoggio da dare, perdendo l’occasione di proporre un’alternativa coerente e leggibile agli occhi degli elettori. Anche sul fronte interno, la scelta di boicottare il voto in Commissione Affari Sociali su un testo condiviso per il salario minimo, per mere dinamiche tattiche, ha dato l’impressione di un’opposizione più preoccupata di marcare la propria “purezza” che di incidere concretamente.
Il risultato è un teatro sempre uguale: a destra si punta sull’applauso immediato, spesso alimentato da un sistema informativo genuflesso, a sinistra sulla battuta intelligente. Nel frattempo, i problemi veri – lavoro, sanità, scuola, infrastrutture – restano sullo sfondo.
Gli elettori? Non sono spettatori sempre innocenti. In tanti hanno tollerato, perdonato e persino premiato comportamenti discutibili, cambi di casacca, alleanze contraddittorie. Così la perdita di onorabilità è diventata una fastidiosa ricorrenza. In tribunale c’è scritto “La legge è uguale per tutti”, ma forse sarebbe più onesto correggere con “quasi tutti”, giacché non tutti sono uguali davanti alla legge.
Sul piano internazionale, l’Italia appare come un giocatore incerto: pronta a rivendicare un ruolo da mediatore, come nella missione navale nel Mar Rosso, ma spesso divisa al proprio interno sul grado di coinvolgimento, tra chi invoca prudenza e chi spinge per un’azione più visibile. Il risultato è che la nostra voce, spesso limitata alla sterile amplificazione di un’informazione “servente”, fatica a imporsi nei consessi in cui si decide davvero.
Le promesse durano fino alla prossima elezione, i principi fino al prossimo sondaggio. Il voto, per molti, è ridotto a un click emotivo o a una bandiera agitata per tifo o per rabbia. In una democrazia la responsabilità è sempre circolare: chi governa lo fa perché è stato scelto, e chi sceglie agisce (o non agisce) in base a criteri che possono essere illuminati, superficiali, dettati dall’inerzia o, peggio, da colpevoli connivenze o da malaffare.
Se vogliamo restituire peso e credibilità alla parola “honorabilis”, servono due condizioni imprescindibili. La prima: una politica che smetta di essere un concorso di popolarità, governato da slogan effimeri e calcoli elettorali, e torni a concepirsi come un servizio alla collettività, in cui il successo non si misura in consensi momentanei ma in risultati concreti e duraturi per il bene comune. La seconda: cittadini che rifiutino la logica rassegnata del “meno peggio” e pretendano, con determinazione, il meglio che la società possa esprimere, senza lasciarsi sedurre dalla superficialità o dall’indifferenza. Perché l’onore, quando si perde, non si recupera con un hashtag, una conferenza stampa o un sapiente giro di comunicati. L’onore si riconquista lentamente, pezzo dopo pezzo, con la forza della coerenza, con la trasparenza dei gesti, con il coraggio di prendere decisioni difficili anche quando non sono popolari. È un cammino faticoso, che richiede disciplina e memoria. Ma è anche l’unico modo perché “honorabilis” torni a significare ciò che dovrebbe: la stima guadagnata e mai usurpata.