Termini, tra gli altri, come “mobbing” (che si tratti di quello lavorativo o familiare), “stalking”, “cyberstalking”, “body shaming”, “revenge porn” e “catcalling”, violenza digitale, bullismo, possono essere racchiusi in un’unica parola: violenza.
Si tratta di un fenomeno antisociale in continua crescita, che invade ogni aspetto della vita, arrivando perfino negli spazi più personali e intimi, dove ciascuno dovrebbe sentirsi al sicuro e protetto.
Quando si parla di violenza se ne parla soprattutto al femminile, perché è quella più eclatante e, spesso, cruenta, considerato che la violenza sulle donne, compresa quella psicologica, si ripercuote anche sui bambini, quando restano orfani o vengono allontanati dal nucleo familiare.
Al riguardo, ho partecipato all’incontro svoltosi nella Sala del Tribunale di Palazzo Dogana a Foggia dal titolo “Foggia in prima linea contro la violenza di genere”.
All’evento è intervenuto come relatore, oltre al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Foggia Ludovico Vaccaro, alle autorità politiche cittadine, tra cui la consigliera regionale Rosa Barone e alle rappresentanti delle associazioni operanti sul territorio della Provincia di Foggia per la tutela delle donne vittime di violenza, anche mons. Giorgio Ferretti, arcivescovo di Foggia-Bovino..
Ritengo che proprio l’arcivescovo di Foggia con il suo intervento abbia dato adito allo spunto di riflessione più interessante, quando ha invitato i presenti ed i relatori a porsi l’interrogativo su quali siano le cause della violenza di genere, senza peraltro lasciarlo come un quesito a risposta aperta, poiché lui stesso le ha indicate in quella che può essere definita una “crisi del maschio”, oltre che della “paternità”, il che è stato condiviso anche dal procuratore.
Alcune relatrici, rappresentanti delle associazioni attive nel settore, hanno individuato le cause nel “patriarcato” (che è il contrario della “crisi del maschio”), cioè quel sistema sociale in cui gli uomini monopolizzano il potere, sia nella vita privata che in quella pubblica, detengono il controllo della leadership politica, l’autorità morale ed i privilegi sociali.
In realtà, non mancano le società matriarcali nel mondo come in alcuni territori italiani né forme di violenza, specie psicologica, contro gli uomini, che possono anche loro essere vittime di violenza. In Provincia di Foggia esistono realtà che mettono a disposizione gli alloggi per gli uomini separati o divorziati, spesso non affidatari dei figli.
Ma visto che il tema è dedicato alla violenza contro le donne, all’interessante interrogativo posto dall’arcivescovo di Foggia-Bovino ribadirei che si tratta di un dibattito, pur animato talvolta da buone intenzioni, intriso della stessa cultura paternalistica che lo origina: l’idea che le donne siano percepite come vulnerabili, diverse, fragili. In altre parole, subordinate.
Quando i clienti mi chiedono se mi offendo se mi chiamano avvocato anziché avvocata (o avvocatessa, oddio questo proprio no!), rispondo che per me la parità di genere non è mai stata una questione di desinenze, ma di reali pari opportunità.
La stessa introduzione del femminicidio, che è un omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa per ragioni legate al suo genere, trattandosi, quindi, di una categoria particolare all’interno dell’insieme più ampio degli omicidi, in cui la vittima è una persona di sesso femminile, mi dà l’impressione di alimentare ancora una volta una narrativa che contribuisce a una forma sottile di segregazione culturale, come se appartenesse a una categoria “a parte”.
Cioè, quello che intendo dire è che questa narrazione può trasformarsi in una sorta di ghettizzazione simbolica la quale altro non è che l’ennesima espressione di una subordinazione mascherata da premura: la donna non è più vista come una persona che condivide con l’uomo diritti, responsabilità e complessità, ma come un essere vulnerabile, intrinsecamente legato alla condizione di vittima.
Così, anziché affrontare il problema alla radice, vale a dire il sistema di potere che legittima e perpetua le disuguaglianze, esiste il rischio di riproporre il paradigma paternalistico, distogliendo l’attenzione dal vero nodo della questione: la necessità di trasformare le strutture sociali, educative e culturali che alimentano il dominio maschile, nella sua accezione più negativa.
Parlare di violenza piuttosto che delle sue cause è un modo per non risolvere il problema.
Che poi è quello che qualcuno di diceva anche a proposito della famosa “Questione Meridionale”.
Inoltre, secondo il “Rapporto ombra” 2024, frutto del lavoro di più di trenta tra esperte di diritti delle donne, associazioni, organizzazioni sindacali e internazionali coordinate da D.i.Re, lo Stato italiano non ha seguito un approccio sistemico e strutturale nel colmare il gender gap.
Permane la tendenza a reinterpretare e ridefinire le politiche di pari opportunità come politiche di famiglia e maternità, il che ha comunque la sua importanza. Ma andrebbero implementate anche strategie di investimento riguardanti il caregiving, il lavoro, l’empowerment, lo status economico, la segregazione verticale e orizzontale delle donne, gli stereotipi.
E, aggiungo, occorre partire dall’educazione capillare, a scuola come a casa, senza aggettivazioni, ambientale, digitale, sessuale o altro, ma autenticamente universale ed umana. Già nel 1937 Maria Montessori proclamava: «Bisogna educare! Che l’educazione possa creare un’umanità migliore è una verità, sì, ma richiede un grande lavoro. Un lavoro forse lungo, ma tuttavia breve se considerato in rapporto a tutto il lavoro che ha già compiuto l’uomo».
Dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile leggiamo: «Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile».