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A Roma qualcuno si sveglie, dica sì alla detassazione dei premi di produttività

In tempi di salari bassi e inflazione crescente, qualche soldino in più nelle tasche dei lavoratori non guasta. E se alla maggiore retribuzione dei dipendenti corrisponde anche un incremento di produttività dell’azienda, ecco che il cerchio si chiude nel migliore dei modi. A consentire un simile scenario sono i contratti di produttività che, stando a un recente dossier stilato dal Ministero del Lavoro, sono protagonisti di una fortissima espansione al Nord e al Centro ma non al Sud, cioè proprio nell’area del Paese in cui tradizionalmente si registrano i salari più bassi. Invertire la tendenza? Possibile, a patto che il governo Meloni si decida a detassare completamente i premi corrisposti ai lavoratori.

Partiamo, come sempre, dai numeri. Dossier alla mano, in Italia sono 3,7 milioni i dipendenti di aziende private che beneficiano della contrattazione di secondo livello strettamente legata alla produttività. I contratti attivi, al 15 giugno scorso, sono 14.158, in aumento di 1.116 unità rispetto al mese precedente e di circa il 4% rispetto allo stesso periodo del 2024. Gran parte degli accordi fissa obiettivi di produttività, redditività e qualità, ma non mancano i contratti legati a piani di partecipazione o che prevedono misure di welfare aziendale. Il 49% dei contratti di produttività è stipulato in piccole e medie imprese, dunque con meno di 50 dipendenti; il 36 in imprese grandi, quindi con almeno 100 dipendenti; il 15 in imprese di dimensioni intermedie, con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 99.

Il dato più interessante, ovviamente, riguarda il premio che in media sfiora i 1.600 euro l’anno: non male in un’epoca in cui il lavoro povero dilaga e le famiglie devono fare i conti con prezzi e tariffe in costante aumento specialmente per quanto riguarda generi alimentari, energia e trasporti. Il problema è che i contratti di produttività sono diffusi soprattutto nelle zone del Paese dove i salari sono più sostanziosi e cioè al Nord, nel 73% dei casi, e al Centro, nel restante 17. Il Sud, area del Paese tradizionalmente depressa in cui talvolta le retribuzioni mensili raggiungono a stento i mille euro, è fanalino di coda: da Roma in giù è attivo solo il 10% del totale dei contratti di produttività stipulati sull’intero territorio nazionale.

Come dare un impulso a questo strumento che ha il pregio di far lievitare la retribuzione dei lavoratori di pari passo con la produttività delle aziende? La soluzione è una: azzerare la tassazione sui premi. Dal 2023, infatti, i premi sono sottoposti ad aliquota per l’imposta sostitutiva al 15%, dimezzata rispetto al passato. La manovra per il 2024 ha confermato questa detassazione che, in base alla legge di bilancio per il 2025, sarà attiva fino al 2027. A beneficiarne, fino a un premio massimo di 3mila euro lordi, sono e saranno i dipendenti di imprese private il cui reddito non abbia superato gli 80mila euro nell’anno precedente.

Adesso, però, è il caso di compiere un passo ulteriore detassando completamente quei premi che restano molto più utili e gratificanti delle misure di welfare aziendale messe in campo da numerose imprese. Non risolverà il problema del lavoro povero, per il quale sono indispensabili interventi più ampi e strutturali, ma lo strumento del contratto di produttività merita di essere sostenuto per la sua capacità non solo di accrescere la retribuzione dei lavoratori, ma anche di aumentare a produttività delle aziende e di stimolare la buona contrattazione di secondo livello. A meno che la politica non voglia continuare a flagellarsi per la piaga del lavoro povero, senza però trovare alcun rimedio.

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