Whistleblowing, verso una tutela più uniforme e ampia dei “fischiettatori”

Negli ultimi tempi, tra i vari operatori, giuristi e non, che si occupano di compliance viene ripetuta la parola Whistleblowing.

Il termine non ha, tuttavia, cessato di instillare nell’ascoltatore esigenze di chiarimenti, si voglia a causa dell’inglesismo oppure della disorganicità, sino a poco tempo fa, della relativa disciplina.

Uscendo dall’inglesismo, il termine Whistleblowing, letteralmente traducibile con la locuzione “soffiare nel fischietto”, si riferisce alle misure di protezione previste in favore di coloro che segnalano, soffiando appunto in un metaforico fischietto, illeciti di cui siano venuti a conoscenza in un contesto lavorativo.

Il tema è di recente tornato al centro dell’attenzione, posta l’adozione, che risale allo scorso marzo, del D.lgs. n. 24/2023, emanato sulla spinta di un legislatore europeo, il quale, per esigenze di uniformità, richiedeva agli Stati Membri misure minime comuni in materia.

Il provvedimento ha costituito, per il legislatore, un’occasione per ridisegnare i contorni della disciplina e definire, cristallizzandole una volta per tutte, le misure di protezione del segnalante, in relazione tanto ad enti pubblici quanto a quelli privati.

La novella riporta la disciplina dei diversi canali di segnalazione, la cui attivazione costituisce un obbligo diversificato per i destinatari: sono previsti canali di segnalazione interni ed esterni, in favore dell’Anac o la divulgazione pubblica, questi ultimi da esperirsi in caso di insoddisfazione data dal canale interno e in presenza di determinate condizioni.

Concretamente si tratta, nel dettaglio dei divieti di ritorsione, in molteplici forme, nei confronti di segnalanti e, questa è una novità, dei relativi facilitatori o familiari. Le modalità di segnalazione variano in base alla natura pubblica o privata dell’ente, allo svolgimento di particolari attività, al numero dei dipendenti e all’adozione del Modello organizzativo ai sensi del D.lgs. n. 231/2001.

La disciplina trova oggi una attuazione più estesa, meno frammentata e più razionale rispetto al passato. Invero, i primi meccanismi di protezione dei segnalanti risalgono al 2012 ma la tutela riguardava i soli dipendenti di enti pubblici.

Successivamente, nel 2017, il legislatore, oltre a perfezionare la disciplina in materia di enti pubblici, ne ha introdotto una relativa agli enti privati: questi ultimi, tuttavia, risultavano essere interessati solo nella misura in cui erano muniti di un Modello. Il panorama normativo previgente, dunque, pur arricchito da una serie di linee guida Anac, risultava essere a tratti dispersivo e comportava irrazionali differenze di trattamento tra i lavoratori impiegati nel settore privato: le differenze, infatti, erano dettate dalla sola presenza del Modello, decisione che era ed è a totale discrezionalità dell’organo dirigente dal momento che, come è noto, non vige nel nostro ordinamento un obbligo in tal senso. La nuova normativa, al contrario, pur di non agevole ed immediata comprensione, posti i numerosi rinvii, è da accogliere positivamente dal momento che differenzia possibilità e modalità di segnalazione sulla base di criteri oggettivi, sopra riportati.

Inoltre, ed è l’auspicio di chi scrive, la previsione anche di canali esterni di segnalazione, applicabile agli enti con almeno 50 dipendenti e, a certe condizioni, anche ai restanti, rassicurerà quei segnalanti che, sulla base della vecchia normativa, potevano sentirsi effettivamente meno propensi a “soffiare nel fischietto”.

Ha collaborato Monica Galli

Valeria Logrillo e Monica Galli sono avvocate in Deloitte Legal

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