Voluntary discloure, perché il legislatore non agevola l’evasore

Nulla di nuovo se definiamo il condono come quell’istituto in dipendenza del quale il fisco rinuncia a incassare parte delle somme dal contribuente. Ma non daremmo il minimo contributo rispetto al tema della sua ragionevolezza, e, quindi, della sua accettabilità costituzionale. Come giudichiamo un legislatore che consente al contribuente di ridurre tributo e/o sanzioni? La risposta sovviene agevole; ma dimostreremo, così, di aver giudicato con “la pancia”, non con la testa. Perché ci manca una informazione fondamentale: sulla base di quale titolo il fisco si assume creditore del contribuente? Domanda non capziosa perché, come noto, affermare un fatto non significa renderlo reale. Il creditore (anche fiscale) non è tale perché lo afferma, ma perché è in possesso di un titolo dal quale il credito è nato; alla solidità del titolo corrisponde la solidità del credito; e, al grado di solidità del credito, si collega il grado di accettabilità costituzionale della rinuncia al credito stesso. Semplificando, tanto più il titolo del credito è debole, tanto più accettabile sarà la sua rinuncia parziale (cioè il condono). Il condono, allora, non è buono o cattivo. Tutto dipende dalla solidità del credito a cui il fisco rinuncia. Pensiamo all’attuale condono sulle liti fiscali pendenti. Migliaia di sentenze ogni anno vengono ribaltate dal giudice del grado superiore. C’è un adagio tra i giuristi: solo un avvocato incompetente o improvvido può assicurare al cliente la vittoria in giudizio, che dipende da fattori spesso imponderabili. A questo punto, nel processo, il fisco rinuncia a un credito o a una speranza di credito? D’altronde, se le contestazioni fiscali fossero sempre corrette, dovremmo chiederci perché esiste un Giudice tributario.

Così, quando il legislatore consente al contribuente di chiudere la lite fiscale pagando solo una quota del maggior tributo accertato, sta semplicemente dando una dimensione del beneficio, per il Fisco, dell’incasso immediato, seppur ridotto, rispetto a coltivare una speranza di incasso maggiore che potrebbe però svanire nel nulla in futuro. Il legislatore non agevola l’evasore perché, semplicemente, durante una lite, non esiste alcun evasore, ma solo un contribuente destinatario di una contestazione fiscale, magari sbagliata. Pensiamo, ancora, alla prospettata riedizione del condono riguardante il rientro dei capitali dall’estero (la prima versione è del 2014), laddove si ipotizza una sconto sul tributo per chi li riporta in Italia. A differenza del caso precedente, qui siamo di fronte a un evasore certo. Ma anche qui il credito del fisco ha più il colore della speranza che della certezza. Sarebbe, infatti, il fisco, in grado di scoprire tali capitali? La storia insegna che sono stati scoperti solo i capitali del contribuente imprudente e sfortunato. Così, il confronto non è tra quella che dovrebbe essere la tassazione ordinaria se il contribuente non avesse evaso, e quella ridotta a seguito del condono, ma tra quest’ultima e, probabilmente, lo zero. Perché, se il capitale estero resta nascosto, la sua tassazione sarà pari a zero. Da anni è stato coniato un termine: realpolitik. Serve a ricordare che chi governa deve confrontarsi con la realtà; scendere a compromessi non con qualcuno, ma con le esigenze concrete dello Stato. Rispetto al condono, il tema non è il grado di condivisione di una scelta politica, ma il grado di sua ragionevolezza, cioè il grado di coerenza nella contemperazione tra costi e benefici. E non è un caso che il condono, nel corso degli anni, abbia diabolicamente affascinato i governi di ogni colore politico. Perché magari è brutto, ma, spesso, serve. Ciascuno di noi può preferire i sogni a una piccola realtà. Ma, “nel mondo del fare”, una piccola realtà è, cinicamente, spesso meglio di un sogno interrotto da una fastidiosa sveglia.

Gianpiero Porcaro è avvocato cassazionista e dottore commercialista

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