In questi ultimi anni, complice la situazione emergenziale causata dalla pandemia, abbiamo assistito ad un notevole sviluppo del processo di digitalizzazione che ha reso eseguibile la prestazione lavorativa in qualsiasi luogo e tempo, riducendo la presenza dei lavoratori negli spazi di lavoro. Sin da subito si è constatato che la digitalizzazione della prestazione lavorativa ha consentito uno sviluppo sostenibile e una riduzione dei costi di gestione degli ambienti di lavoro; d’altro canto, però, si è potuto osservare che la dematerializzazione degli spazi lavorativi e la permanente connessione con l’ambiente di lavoro possono condurre ad un’eccessiva dilatazione dei tempi di lavoro (c.d. overworking). Le conseguenze negative del fenomeno sono constatabili in un’indagine condotta da INAPP Plus su un campione di oltre 45 mila lavoratori dalla quale è emerso che il 77,89% riceve comunicazioni al di fuori dell’orario di lavoro e di queste il 19,13% sono riscontrate regolarmente dai destinatari. L’assottigliamento della linea di demarcazione che separa la vita lavorativa da quella privata porta con sé nuovi rischi per la salute dei lavoratori e, conseguentemente, l’esigenza di nuovi strumenti di tutela contro l’eccessiva intensificazione dei ritmi di lavoro.
Proprio in questo contesto si inserisce il diritto alla disconnessione con il quale si assicura al lavoratore l’irreperibilità, ovvero la garanzia di non essere destinatario di richieste da parte del datore di lavoro e di non doverle soddisfare fuori dall’orario lavorativo.
Il tema della disconnessione è approdato nell’ordinamento italiano con l’art. 19, comma 1, della L. n. 81/2017. La norma, se da un lato ha il merito di aver recepito l’esigenza del lavoratore di rendersi indisponibile fuori dall’orario di lavoro, dall’altro non ha offerto alcun criterio da seguire per tutelare il dipendente. Il Legislatore, con la L. n. 81/2017, si è limitato a stabilire che gli strumenti per assicurare la disconnessione del lavoratore dovessero essere disciplinati nei singoli contratti di lavoro e quindi subordinati esclusivamente all’autonomia privata dei contraenti.
Un cambio di passo nell’evoluzione normativa dell’istituto si ha solo con la a L. del 6 maggio 2021, n. 61, la quale, con l’art. 2, comma 1 ter, qualifica per la prima volta la disconnessione come un vero e proprio diritto e garantisce l’astensione dai mezzi tecnologici a prescindere da quanto eventualmente pattuito in sede contrattuale. Nonostante ciò, l’impianto normativo della novella appare tutt’altro che esaustivo. La stessa, infatti, non offre alcun modello di attuazione a cui ispirarsi né prevede quali sanzioni possano derivare dall’ipotesi in cui le parti omettano di rendere effettiva la disconnessione. Peraltro, si deve segnalare che la previsione citata si inserisce all’interno di una regolamentazione che trova applicazione fino al termine dello stato di emergenza.
A questo punto, l’unica alternativa per superare questa impasse sembrerebbe essere la contrattazione collettiva, la quale – in assenza di una specifica previsione normativa – può dare concreta attuazione al diritto alla disconnessione e, allo stesso tempo, semplificare le procedure per raggiungere gli accordi individuali, rafforzare il potere contrattuale del lavoratore e finanche offrire una regolamentazione più organica dell’istituto.
Non vi è dubbio che siamo testimoni di una svolta epocale nelle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Tuttavia, ad oggi, lo sforzo compiuto dal Legislatore non conferisce ancora una concreta tutela allo smart worker. La sfida da accogliere in futuro è senz’altro quella di addivenire ad una normativa unitaria che sia in grado di recepire a pieno le esigenze di tutela di tutti i lavoratori subordinati e di porre le fondamenta di un welfare moderno in cui la disconnessione tecnica coincida con una «disconnessione intellettuale» dal lavoro.