Settimana corta, Amendolito: «Ritmi più produttivi con bilanciamento tra vita e lavoro»

«Dovremmo avere una maggiore attenzione per politiche di work – life balance, come lo smart working, la flessibilità del lavoro, strumenti di welfare ed anche settimana corta». Ne è convinto Francesco Amendolito, professore straordinario di Diritto del Lavoro e Relazioni Sindacali alla Lum.

Professore, un recente studio condotto dal centro studi britannico Autonomy, e ha coinvolto gruppi di ricerca di diverse università: alcune europee, come l’università di Cambridge e di Salford nel Regno Unito, la University College Dublin in Irlanda e la Libera Università di Bruxelles, e una americana (il Boston College, nel Massachusetts), dimostrerebbe che con la settimana da quattro giorni lavorativi non ci sarebbero danni per le aziende e che i lavoratori vivono meglio. È una strada percorribile nel nostro Paese quella della settimana lavorativa su quattro giorni?

«Giuridicamente, senza dubbio, è una strada percorribile. La settimana lavorativa su quattro giorni, considerando il nostro attuale quadro normativo, può essere il frutto di una mera scelta gestionale delle aziende. Una prima ipotesi – simile a quella ormai diventata legge in Belgio – potrebbe essere quella di modificare il numero di giorni lavorativi all’interno della settimana lasciando invariato il monte ore totale. Consequenzialmente, si lavorerebbe dieci ore al giorno, per quattro giorni. Se si volesse dare seguito a questa prima idea applicativa, da un punto di vista prettamente giuridico non sorgerebbe alcun tipo di problematicità trattandosi semplicemente di una scelta organizzativa che può essere portata avanti autonomamente dal datore di lavoro, inserendosi perfettamente nella cornice normativa in materia di orario di lavoro esistente e non implicando alcun tipo di reformatio in peius delle condizioni contrattuali, soprattutto economico – retributivo dei lavoratori. Una seconda ipotesi attuativa potrebbe, invece, sostanziarsi in una rimodulazione della settimana lavorativa con contestuale riduzione dell’orario di lavoro a trentadue ore di lavoro (mantenendo le otto ore giornaliere) ovvero trentasei ore settimanali, lasciando ai lavoratori la possibilità di programmare quando usufruire della settimana corta e quando della settimana normale, tenendo conto della compatibilità con le esigenze tecniche e produttive dell’azienda), mantenendo inalterati i livelli retributivi. Anche in questa ipotesi, in verità, se si lasciasse la scelta ai lavoratori, il nuovo modello di lavoro potrebbe essere attuato quale policy aziendale. Quest’ultima credo sia oggi la richiesta avanzata da sindacati e lavoratori».

Quali potrebbero essere gli effetti collaterali ai quali bisognerebbe trovare una soluzione?

«Dipendono da quale tipologia applicativa si ritiene di adottare. Non è possibile dare delle risposte univoche a questa domanda. Infatti, se si applicasse la settimana corta con riduzione dei livelli retributivi ci sarebbero sicuramente degli effetti collaterali in merito alla qualità di vita dei lavoratori, soprattutto se pensiamo che il nostro Paese è caratterizzato da bassi livelli salariali rispetto al resto d’Europa. L’altro effetto collaterale, ovviamente, invece si verificherebbe in caso di applicazione di settimana corta in aziende con cicli produttivi a ciclo continuo. Infatti, in questi casi per concedere ai lavoratori la settimana corta diventerebbe necessario assumere più lavoratori e se si dovesse pensare di applicare la settimana corta a parità di salario è ancor più evidente come quest’altra ipotesi, pur favorendo un aumento dell’occupazione, sarebbe economicamente insostenibile per molte aziende».

C’è qualche azienda nel nostro Paese che sta sperimentando la settimana di quattro giorni lavorativi?

«Certo. Da tempo ormai Intesa Sanpaolo ha applicato la settimana corta a parità di salario rimodulando le giornate lavorative: ha ridotto le ore settimanali a trentasei, spalmandole in nove ore giornaliere per quattro giorni. Di recente, invece, con la firma dei nuovi accordi integrativi, hanno applicato la settimana corta anche Luxottica e Lamborghini. Luxottica ha introdotto un modello secondo il quale saranno svolte 20 settimane lavorative a 4 giorni e 30 a 5 giorni. 5 dei 20 venerdì liberi saranno scalati dai permessi retribuiti, mentre gli anni 15 saranno in carico dell’azienda. Lamborghini, invece, rappresenta la prima azienda nel campo dell’automotive ad applicare la settimana corta prevedendo una settimana di lavoro da 5 giorni seguita da una settimana di 4 giorni per il personale di produzione o ad esso collegato».

L’Italia è fanalino di coda per produttività oraria dei lavoratori. Perché?

«Forse proprio perché si lavora troppo, la produttività è inversamente proporzionale al livello di stress (sindrome da burn-out). È ormai un dato scientificamente acclarato quello secondo il quale un maggior bilanciamento vita – lavoro e quindi un minor stress in capo ai dipendenti, genera ritmi lavorativi maggiormente produttivi. Sono fermamente convinto che il problema persistente in Italia è la mentalità comune in cui siamo portati a dare esclusiva rilevanza al numero di ore lavorate senza curarci di cercare metodi per diminuire lo stress dei lavoratori e renderli, al contrario, più produttivi».

Su cosa si dovrebbe intervenire per recuperare rispetto ai paesi del centro-nord Europa?

«Dovremmo avere una maggiore attenzione per politiche di work – life balance, come lo smart working, la flessibilità del lavoro, strumenti di welfare ed anche settimana corta. Tutte quelle politiche di cui il Nord Europa è portatrice nonché avanguardista, affermandosi – così – sempre sui podi nelle classifiche mondiali in materia».

Invece per i salari, anch’essi tra quelli che sono cresciuti meno nell’Ue?

«Questa è una domanda per la quale non c’è un’unica risposta. La mancata crescita dei salari è riconducibile, senza dubbio, da una parte a delle convergenze economiche; dall’altra, invece, si pone la questione del salario minimo. Misura economico/politica della quale pur condividendone gli obiettivi non ne condivido i mezzi d’attuazione. Difatti, sono fermamente convinto, che non sia necessario passare per il legislatore per attuare una tale misura, ma che i sindacati nell’ambito dei minimi retributivi dei Ccnl potrebbero già operare degli innalzamenti dei livelli di salario, in maniera più veloce ma anche maggiormente coerente con i livelli di inquadramento e i singoli settori produttivi».

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