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Salario minimo, parla Francesco Amendolito: «È un pezzo di un puzzle più complesso»

«Il problema del minimo salariale è, a mio avviso, parte di un puzzle più complesso, che necessita di un immediato intervento del legislatore sia per combattere la povertà e sia per concedere alle aziende strumenti a supporto della loro produttività». Ad affermarlo è Francesco Amendolito, professore straordinario di Diritto del Lavoro e Relazioni Sindacali all’università…

«Il problema del minimo salariale è, a mio avviso, parte di un puzzle più complesso, che necessita di un immediato intervento del legislatore sia per combattere la povertà e sia per concedere alle aziende strumenti a supporto della loro produttività». Ad affermarlo è Francesco Amendolito, professore straordinario di Diritto del Lavoro e Relazioni Sindacali all’università Lum, nonché Presidente Aidp Puglia (Associazione Italiana Direzione del Personale) e referente nazionale Aidp Pmi.

Professore, lo scorso 4 luglio è stata presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge ad iniziativa dell’opposizione in merito al salario minimo dal cui testo si evince la volontà di delegare alla contrattazione collettiva la relativa regolamentazione. Che cosa ne pensa? È questo il percorso giusto da seguire?

«A mio parere, delegare alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei livelli retributivi in ottica di salario minimo è, senza dubbio, un corretto metodo di agire perché è perfettamente in linea con le indicazioni contenute nella direttiva europea dello scorso anno. La direttiva 2022/2041, infatti, in riferimento a quegli stati membri i cui ordinamenti sono privi di una normativa sul salario minimo, ma godono di una estesa applicazione della contrattazione collettiva (tra cui l’Italia), incentivava proprio lo sviluppo e il rafforzamento del potere di quest’ultima sulla determinazione dei salari a livello settoriale. La proposta di legge, difatti, mira a stabilire un importo minimo per il salario orario delegando, poi, alla contrattazione collettiva il compito di adeguarlo ai singoli settori produttivi e agli specifici livelli di inquadramento. Alcuni colleghi, in vari commenti, hanno affermato che tale modus operandi rappresenterebbe un limite alla libertà della contrattazione collettiva la quale, invece, dovrebbe stabilire i minimi contrattuali basandosi su fattori economici e sociologici. Personalmente non vedo in ciò una tecnica legislativa distonica rispetto al resto dell’ordinamento. Anzi, è prassi consolidata all’interno del sistema legislativo italiano che vengano fissati i minimi normativi attraverso leggi ordinarie e lasciato, poi, alla contrattazione collettiva il compito di adeguarli alle peculiarità dei singoli settori. Ed è proprio quello che prevede l’art. 3 della proposta di legge, il quale, rafforzando il potere delle sole organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, prevede l’obbligo di applicare in futuro esclusivamente le retribuzioni previste dai Ccnl stipulati da quest’ultime».

Quindi, qualora fosse approvata questa proposta di legge risolveremmo il problema del gap salariale in Italia?

«Onestamente non credo. Perché il problema del minimo salariale è, a mio avviso, parte di un puzzle più complesso, che necessita di un immediato intervento del legislatore sia per combattere la povertà e sia per concedere alle aziende strumenti a supporto della loro produttività. Non bisogna dimenticare difatti, che il benessere dei lavoratori e la produttività dell’impresa sono fattori circolarmente correlati tra loro. Molto probabilmente la proposta di legge – se attuata – risolverà il problema dei contratti pirata, intendendosi per tali quei contratti firmati da associazioni sindacali non rappresentative che prevedono minimi retributivi eccessivamente bassi in contrasto con il principio costituzionale di cui all’art.36 della nostra Costituzione. Allo stesso tempo è doveroso riconoscere che le azioni aventi ad oggetto l’adeguamento delle retribuzioni non possono rappresentare un’iniziativa isolata. Il mercato del lavoro italiano conosce sofferenze di vecchia data, tra cui un elevato carico fiscale sul lavoro e la preoccupante situazione del lavoro irregolare, fattori strettamente correlati all’inadeguatezza dei livelli retributivi. Certamente, la nuova legge non risolverà il problema dei working poor. E questo perché gran parte del problema fonda le sue radici nei rapporti di lavoro irregolari oppure nei falsi rapporti di lavoro parziali, rispetto ai quali il lavoratore presta attività lavorativa anche per le ore non contrattualizzate. Ed il problema non risiede solo qui. Parte del problema è il cuneo fiscale che insiste sui contratti di lavoro, in ragione del quale il costo del lavoro non è proporzionato rispetto al percepito del lavoratore; immaginiamo quanto questo possa incidere soprattutto sulle piccole e medie imprese, che rappresentano il cuore del tessuto produttivo italiano. Sul punto, dobbiamo rendere atto del fatto che pochissimi giorni fa è stato depositato in commissione Lavoro alla Camera un emendamento soppressivo della proposta di legge da parte del centrodestra, il quale sembra puntare ad una discussione a 360 gradi sulla contrattazione, welfare aziendale e lavoro povero da avviare a settembre che porti all’emanazione di un normativa completa ed efficiente. In altre parole, la proposta di legge così come avanzata dalle opposizioni potrebbe rappresentare un piccolo passo ma non di certo la soluzione del problema dei lavoratori poveri in Italia».

Il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori si attuerebbe con l’approvazione di una legge sul salario minimo o le problematiche da affrontare in futuro sono più complesse?

«Sono tante le istanze che si sollevano in questo ambito: salari minimi, riduzione dell’orario di lavoro, maggiore flessibilità, possibilità di conciliare la vita lavorativa con la vita personale, l’urgente ed improcrastinabile adeguamento della formazione e delle competenze professionali dei lavoratori alle nuove esigenze richieste dalla Digital Transformation. Ad esempio, con riguardo alla problematica della cd. settimana corta e delle richieste dei lavoratori di intervenire legislativamente in merito, la questione è molto più complessa di quella che i media o le stesse organizzazioni sindacali fanno trasparire. Il legislatore non può essere l’unico destinatario delle istanze sollevate così come al contrario richiesto. Imbrigliare la settimana corta in una norma di legge, difatti, significherebbe privarla di quella intrinseca flessibilità che invece è necessaria affinché quest’istituto possa rappresentare il volano verso un’organizzazione più confacente alle necessità dei lavoratori e degli imprenditori. A mio parere, così come per il salario minimo, il legislatore dovrebbe delegare le parti sociali a regolamentare, soprattutto nell’ambito della contrattazione collettiva aziendale, l’orario di lavoro settimanale a parità di retribuzione e nel rispetto dell’intera normativa specifica. In conclusione, è evidente ed indubbio che siano tutte istanze correlate al miglioramento della vita dei lavoratori, un fine che ci si augura gli Stati membri e l’Unione Europea vogliano perseguire affidando, soprattutto, il ruolo centrale di questo cambiamento epocale alle relazioni industriali e sindacali e tenendo sempre bene salda la necessità di tutelare e sviluppare la produttività delle imprese. Ho sempre pensato che un’adeguata politica sociale ed economica non possa che basarsi su Stati floridi ed imprese produttive».

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