Ad un anno dal raggiungimento in sede europea dell’accordo sull’importanza del salario minimo (accordo convogliato nella direttiva 2022/2041) possiamo affermare che sebbene abbia rappresentato il fattore propulsore per l’inizio di un dibattito in materia di politica sociale, ancora nessun cambiamento concreto ha apportato nella vita dei lavoratori. In attesa di precise previsioni legislative è opportuno inquadrare l’attuale assetto normativo – giurisprudenziale in materia. Unico baluardo legislativo a tutela del diritto ad una retribuzione adeguata, sufficiente e proporzionale alla qualità e quantità dell’attività lavorativa prestata è l’art. 36 della Costituzione, il quale però si limita a dettare un principio di diritto in merito alla retribuzione, senza scendere nel dettaglio di quando questa può dirsi adeguata.
È stata la giurisprudenza – al fine di fornire una reale tutela al cittadino – a dover disquisire della coerenza dei salari rispetto all’art. 36 della Costituzione. In tal senso, soprattutto la Cassazione, nell’espletare la sua funzione nomofilattica, ha eretto i minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva a metro di giudizio per le valutazioni in merito alla proporzionalità e adeguatezza dei salari. Ciononostante, la stessa Corte di Cassazione (nella sentenza n.33420/2022) sottolinea che i CCNL sono norme di diritto comune, in ragione della mai dichiarata efficacia erga omnes, da ciò derivandone il potere discrezionale del giudice di merito di disattendere quanto previsto dagli stessi e valutare la proporzionalità guardando direttamente al precetto costituzionale.
Ed infatti, i giudici di merito – da ultimo i giudici meneghini nella sentenza n.33420/2022 – nell’interrogarsi in merito all’adeguatezza di un salario calcolato sulla base della retribuzione minima prevista dal Ccnl applicato nell’azienda chiamata in giudizio, lo hanno dichiarato illegittimo in quanto ritenuto al di sotto delle soglie indennitarie del reddito di cittadinanza e della NaSPi. Tale occasione ha permesso ai commentatori di ribadire come i contratti collettivi seppur possano rappresentare un metro di paragone non è detto che gli stessi siano specchio di una retribuzione coerente con il principio costituzionale, soprattutto se guardiamo ai cd. contratti pirati, ovvero i contratti firmati da sigle sindacali non rappresentative che mirano a fissare condizioni economiche al ribasso, al sol fine di trovare applicazione nelle aziende.
Ma non solo, il testo della sentenza sottolinea ancora una volta che in assenza di un parametro legislativo in materia di retribuzione, il magistrato ha il potere di indagare i parametri salariali stabiliti dalle norme collettive avendo come unico punto di riferimento il principio di proporzionalità e sufficienza dettato dall’art. 36 della Costituzione.
Mariapia Piacenza – Cultrice della materia – Cattedra di Diritto del Lavoro e Relazioni Sindacali Università Lum