Riforma delle aliquote Irpef, ecco chi ci guadagna e chi invece ci perde

Tanto tuonò che piovve: si potrebbe sintetizzare in questo modo l’atteso varo della riforma delle aliquote Irpef (l’imposta sul reddito delle persone fisiche, che garantisce il maggior volume di gettito ai conti pubblici dell’erario), dopo anni in cui quello della semplificazione fiscale restava uno dei nodi irrisolti da parte dei vari governi, succedutisi nel tempo. La riforma rientra nel più ampio progetto di riscrittura dell’intero sistema tributario, dopo che la legge delega di inizio agosto (legge 111/2023) ha fissato i principi generali entro cui il governo ha iniziato a muoversi. Ma vediamo di cosa si tratta.

Attualmente, ossia fino a tutto il 2023, le aliquote irpef rimangono quattro: 23% per i redditi fino a 15.000 euro, 25% per i redditi da 15.001 a 28.000 euro, 35% per i redditi da 28.001 a 50.000 euro e 43% per i redditi superiori a 50.000 euro.

Il “meccanismo” delle aliquote, come noto, è quello degli scaglioni di reddito: pertanto, per calcolare l’imposta dovuta da ciascun contribuente si applica l’aliquota corrispondente a ciascuna fascia, fino a coprire il reddito complessivo. Per il 2024 – in quanto la riforma, è bene precisarlo, al momento è limitata al prossimo anno – le aliquote saranno tre, a seguito dell’“accorpamento” dell’aliquota del 25% con quella del 23%; pertanto, in base all’articolo 1 del decreto, le aliquote saranno pari al 23% per i redditi fino a 28.000 euro, al 35% per i redditi da 28.001 a 50.000 euro e al 43% per i redditi oltre 50.000 euro (le ultime due, pertanto, immutate rispetto ad oggi). Il beneficio, dunque, riguarderà maggiormente il ceto medio, precisamente i percettori di redditi compresi tra 15.001 e 28.000 euro, che risparmieranno due punti percentuali: in termini pratici, volendo esemplificare, a fronte di un reddito di 28.000 euro, fino a tutto quest’anno (dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo) si pagheranno 6.700 euro (23% sullo scaglione fino a 15.000 euro e 25% sulla differenza fino a 28.000 euro), mentre dal 2024 (dichiarazione dei redditi 2025) si pagheranno 6.440 euro (23% su 28.000 euro), con un risparmio netto di 260 euro.

Quanto ai redditi più elevati, nelle intenzioni del governo c’è di introdurre una franchigia di 260 euro su alcune detrazioni al 19% (erogazioni liberali a favore delle Onlus, partiti politici ed enti del terzo settore, premi di assicurazione per eventi calamitosi), a carico dei contribuenti che dichiarano un reddito superiore a 50.000 euro; pertanto, resterebbero detraibili le differenze tra quanto effettivamente pagato e la soglia – appunto – di 260 euro.

Dietro la manovra vi è l’obiettivo dichiarato di realizzare una maggiore equità fiscale: come indicato nella relazione illustrativa di accompagnamento al decreto, infatti, l’intento è, da un lato, quello di garantire il rispetto del principio di proporzionalità nella prospettiva di introdurre un’aliquota unica (la cosiddetta flat tax), dall’altro, quello di applicare la cosiddetta “no tax area” e lo stesso onere fiscale per tutte le categorie di reddito, iniziando dall’equiparazione tra redditi di lavoro dipendente e redditi di pensione.

Interessante sarà capire quale sarà il giudizio sull’Italia delle agenzie di rating, che stanno valutando, nel complesso, le misure messe in campo dal governo Meloni e quelle ancora da varare, a cominciare dalla delega fiscale fino ad arrivare alla prossima legge di bilancio: la prima agenzia, in ordine di tempo, è stata Standard & Poor’s (cui seguiranno Fitch e Moody’s), il cui giudizio non si è discostato di molto da quello attuale, confermando la collocazione del nostro Paese nella fascia di rating BBB con trend stabile. In dettaglio, S&P ha previsto che la crescita del nostro Pil riprenderà sopra l’1%, con crescita quest’anno dello 0,9%, dello 0,7% nel 2024 e dell’1,3% nel 2025.

Saranno, come detto, decisive anche le prossime scelte dell’esecutivo, rientranti nel più ampio progetto di riforma del fisco: tra queste, un ruolo importante, con tutta probabilità, verrà ricoperto dalla revisione del sistema nazionale della riscossione, che ha portato alla formazione dell’attuale “magazzino” fiscale che supera i 1.000 miliardi di crediti accumulatisi negli anni e non riscossi.

Marco Ligrani – Ricercatore Fondazione Nazionale Commercialisti

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