«Il payback oltre ad essere ingiusto a livello sostanziale, è inefficace in ottica del contenimento della spesa pubblica, perché interviene solo dopo che i soldi sono già stati spesi». È quanto afferma l’avvocato Nicola Dentamaro che assiste diverse imprese e dal primo momento si è opposto al provvedimento del governo Draghi.
Avvocato, la decisione del Tar del Lazio di mettere tutto nelle mani della Corte costituzionale è una vittoria per tante aziende. È soddisfatto?
«Sono decisamente soddisfatto. Abbiamo raggiunto il secondo dei tre step che ci eravamo prefissati. Infatti, dopo l’ottenimento delle cautelari dello scorso agosto, con cui il Tar Lazio ha sospeso l’efficacia dei provvedimenti, la rimessione alla Corte era il modo migliore per mettere in discussione la legittimità di tutto il meccanismo del payback, nonché l’unico modo per provare a ottenerne l’eliminazione. Il lavoro fatto dalla giustizia amministrativa nelle ordinanze di rimessione è pregievole, perché ha dato pienamente atto del profilo più delicato della vicenda, ossia la differenza tra il settore farmaceutico, dove già la Corte ha ritenuto legittimo il payback, e il settore dei dispositivi medici».
Quante imprese sono coinvolte e quali ripercussioni avrebbe il payback in termini economici e sulla forza lavoro?
«Sono coinvolte circa 5.000 aziende che garantiscono circa 112.000 posti di lavoro in tutta Italia. I dati rilevati dai principali organi di rappresentanza affermano che il 65% di queste aziende sarebbe costretto a licenziare e chiudere, lasciando quindi senza lavoro oltre 60.000 persone».
Qualora la Consulta dichiarasse l’incostituzionalità del provvedimento quali ripercussioni potrebbero esserci sui conti pubblici?
«Il conto sarebbe salato, ovvero pari a 2.2 miliardi per il solo quadriennio 2015-2018, ma d’altronde sarebbe anche giusto che a pagare tale conto fosse chi ha realmente gestito la spesa, e non il fornitore».
Quali le conseguenze, invece, per il sistema sanitario nazionale?
«Sarebbe finalmente il momento giusto per ripensare al sistema dei tetti di spesa, perché il payback oltre ad essere ingiusto a livello sostanziale, è inefficace in ottica del contenimento della spesa pubblica, perché interviene solo dopo che i soldi sono già stati spesi. E se ogni anno i tetti vengono sforati, non serve essere un matematico per comprendere la loro inadeguatezza rispetto alla spesa pubblica in materia sanitaria. I tetti devono essere ripensati tenendo conto della struttura dei singoli sistemi sanitari regionali. Non è un caso se sono sempre le stesse regioni a sforare di più. Non dipende dai manager: in Puglia servono più soldi che in Lombardia, perché, salvo alcune eccellenze private, il sistema sanitario pugliese è prevalentemente pubblico. Bisogna, inoltre, accettare l’idea che il sistema pubblico non è più in grado da solo di evadere le crescenti istanze di sanità, garantendo contemporaneamente elevati standard qualitativi».
In caso contrario quali iniziative potrebbero ancora mettere in campo le aziende chiamate a pagare il payback?
«La Corte, in quanto giudice delle leggi, è l’unico organo in grado di stabilire se, a livello normativo, il payback possa essere applicato oppure se sia contrario con una serie di principi costituzionali, come noi tutti confidiamo. Nel caso in cui la Corte non dovesse condividere la nostra tesi, l’esame si dovrà spostare sui singoli provvedimenti regionali, viziati in via diretta da macroscopiche violazioni delle regole sul procedimento amministrativo, nonché da vistosi errori di fatto e di calcolo. Tanto per fare un esempio, alcune regioni hanno considerato “dispositivi medici”, anche delle fotocopiatrici e sono stati chiesti soldi ad aziende che mai hanno fornito nella loro storia un singolo dispositivo medico».
C’è un dialogo aperto con il governo?
«Il dialogo c’è. Le associazioni sindacali stanno lavorando incessantemente da oltre un anno e, negli ultimi mesi, in concomitanza con i lavori parlamentari per l’approvazione della legge di bilancio, sembra emergere qualche prospettiva, non ancora confermata. È stata ipotizzata una soluzione transattiva, che certamente non può essere quella già proposta dal Governo nell’aprile scorso con uno sconto del 52%, perché gli importi rimarrebbero ancora troppo alti e non ci sarebbero idonee garanzie per il futuro. In ogni caso, la transazione non potrà prescindere dalla insindacabile condizione dell’eliminazione del payback. Su questo, però, è giusto che ad esprimersi siano le aziende e non i tecnici».
Potrebbe essere prevista dal governo una dilazione nel tempo dei pagamenti?
«La dilazione non è un’ipotesi risolutiva perché, qualora il payback dovesse entrare a sistema, alle somme attualmente certificate, si andrebbero ad aggiungere un ulteriore quadriennio 2019-2022 (peraltro colpito da periodo covid-19), nonché tutte le annualità a seguire. Pertanto, ipotizzare oggi la transazione non sarebbe altro che rinviare di qualche mese la morte di queste aziende, che in ogni caso sarebbero costrette ad iscrivere queste somme in bilancio, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero».