“Io Capitano”, il film di Matteo Garrone che racconta il dramma dei migranti che attraversano il deserto per arrivare in Europa, rappresenterà l’Italia agli Oscar. Un film che mette il dito in una ferita aperta non solo per il Paese ma per l’intero continente. Raimi Bio Kinnou, 37 anni, ha vissuto sulla propria pelle questo dramma, percorrendo l’Africa e poi il Mediterraneo dal 2008 al 2011 per arrivare in Italia. Oggi è sposato ed ha tre figli.
Raimi Bio Kinnou, il film ha riproposto il problema ricalibrando il punto di vista sulle vittime e la loro sofferenza. Lei lo ha visto? Che impressione le ha fatto?
«Premetto che fa male rivivere certe situazioni della tua vita che vorresti dimenticare. Ho visto il film con grande attenzione e, appena terminato, il pensiero che ho fatto è che il viaggio del protagonista è stato più facile rispetto a quello che ho vissuto io. Raccontano la storia di un ragazzo alla fine fortunato e invece per molti c’è solo violenza e morte.
Quanto è durato il tuo viaggi?
«Più di tre anni. Sono partito dal Benin, sono andato in Niger e poi in Algeria, dove mi hanno truffato dicendo che mi avrebbero cambiato i soldi con la valuta locale e invece non era vero. Ho perso tutto quello che avevo e sono rimasto per un anno lì a lavorare. Poi mi sono spostato in Libia dove ho continuato a lavorare. Poi il mare. Questa è la parte del film in cui ho riscontrato maggiori differenze con la mia storia. Durante la mia traversata era decisamente più agitato, l’acqua entrava da tutte le parti e la barca rischiava di capovolgersi sempre. Non sapendo nuotare avevo preferito mettermi nella parte di sotto della barca».
Si è sentito rappresentato e capito dal regista?
«Si tratta di un film ma sì, più o meno la realtà è questa. Spero che le persone che vedono il film capiscano un po’ meglio la nostra storia. Solo una cosa deve essere forse più chiara: non tutti partono da una situazione così e non è facile come sembra nel film guadagnare i soldi che ti permettano di affrontare il viaggio».
Qual è stata la parte più difficile del suo viaggio?
«L’attraversamento del deserto e il film rispecchia bene questa esperienza. Ho bevuto anche io l’acqua con la farina, ma le persone a cui i trafficanti hanno trovato soldi in tasca sono stati uccisi con i fucili mentre correvano credendo di essere in salvo. Quello su cui si sono soffermati poco e raccontato in maniera superficiale è il momento nella barca. Non potrò mai dimenticare come si muoveva. Siamo stati attaccati l’uno all’altro per tre giorni e tre notti. Io mi sono messo giù nella stiva, non volevo vedere niente. Ho lasciato a Dio la mia sorte. Forse è stato meglio così perché due persone sono cadute in mare e non siamo riusciti a recuperarli. Una donna poi è morta appena arrivati a Lampedusa».
Si può dire che vale la pena correre i rischi che si vedono nel film?
«Per me ne è valsa la pena. Grazie ai lavori che io faccio in Italia posso aiutare tantissime persone della mia famiglia e del mio Paese. Senza il mio aiuto non so come potrebbero vivere. Se una persona che vuole fare questo viaggio però mi chiama e mi chiede cosa penso e se deve partire, io gli dico di non farlo. È troppo brutto quello che succede. Troppi muoiono, troppa violenza e truffe».
La realtà italiana è diversa da quello che si immaginava?
«Pur correndo questo rischio riusciamo a fare qualcosa per la nostra famiglia in Africa ma la realtà non è perfetta. Purtroppo esiste tantissimo razzismo e anche se io ho una famiglia bellissima qui e mi sento molto fortunato e desidero solo lavorare onestamente, molte volte soffro e non riesco ad essere felice come vorrei perché le difficoltà legate all’intolleranza mi sembrano non finire mai».