Informazione e giustizia sono settori che spesso, soprattutto nel racconto di fatti di cronaca, rischiano di scontrarsi. Due mondi in continua contrattazione per raggiungere un punto di incontro che soddisfi le necessità di entrambi.
Giudo Stampanoni Bassi, avvocato penalista e direttore della rivista scientifica Giurisprudenza Penale, spiega come orientarsi nella comprensione dello storytelling della cronaca giudiziaria e come si potrebbe migliorare questa difficile interazione.
Direttore, il rapporto tra stampa e autorità giudiziaria è davvero così complicato?
«Purtroppo ad oggi, nell’attuale panorama giurisprudenziale, è uno dei più complessi. Bisogna considerare che qui si scontrano esigenze che impongono necessariamente un punto di equilibrio; che fortunatamente sono tipiche di un ordinamento democratico. Da un lato, c’è il diritto dei giornalisti di fare il proprio mestiere, facendo informazione, anche su fatti di cronaca giudiziaria, dall’altro, quello di tutelare chi è oggetto di un procedimento penale».
Cosa si rischia quando questo delicato equilibrio viene meno?
«Le disfunzioni, cioè un mancato incontro tra le parti, generano quello che, sinteticamente, chiamiamo “processo mediatico”. La stampa, nel tentativo di adempiere al suo ruolo informativo, finisce con il trascendere i limiti entro cui deve muoversi e rischia di ledere gli altri interessi in gioco tra cui la presunzione di innocenza. Il problema è che oltre all’indagato o all’imputato ci sono altre potenziali vittime di questo meccanismo e tra queste gli stessi giudici, i quali perdono quella che viene in gergo chiamata “verginità cognitiva” e, con essa, la serenità di giudizio».
Qual è il quadro normativo all’interno del quali ci muoviamo?
«Sicuramente parliamo di un quadro complesso e frastagliato, anche se vi sono norme processuali e sostanziali che sono dei punti di riferimento. Tra queste c’è l’art 329 del Codice di Procedura Penale che disciplina il “segreto” degli atti, l’art. 114 che prevede una serie di divieti di pubblicazioni di atti poi l’art. 684 del Codice Penale che prevede sanzioni, a dire il vero molto poco efficaci, in caso di violazione dei divieti di pubblicazione».
Quanto, secondo lei, i giornalisti si muovono in modo consapevole in questo quadro normativo?
«Su questo tema ritengo che ci sia un buon livello di conoscenza da parte della stampa. Ci sono stati alcuni recenti casi di cronaca in cui i giornalisti, per giustificare la pubblicazione di determinati atti, hanno richiamato non solo le disposizioni che abbiamo citato prima, ma la stessa interpretazione fornita dalla giurisprudenza».
Può citare un esempio?
«Certo. Parliamo dell’art. 114 c.p.p., il cui ultimo comma prevede che “è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto”. Questo significa che, se l’atto non è più coperto da segreto, perché è già stato notificato all’indagato o ai suoi avvocati, potrebbe comunque esserne ancora vietata la pubblicazione (totale o parziale), ma – al tempo stesso – non è vietata la pubblicazione del suo “contenuto”. Mi rendo conto che la distinzione tra pubblicazione dell’atto e pubblicazione del contenuto dell’atto non è sempre facile da individuare – ai non addetti ai lavori potrebbe sembrare un gioco di parole – ma questo prevede la legge».
Ci sono proposte normative per disciplinare questa molteplicità di aspetti?
«Si, certo, al vaglio ce ne sono alcune, una molto interessante è quella dell’on.le Vitiello. Purtroppo, però, credo che aldilà delle norme sia importante potenziare l’auto-regolamentazione da parte della stampa. Il ruolo dei giornalisti è fondamentale però, e non voglio, ovviamente generalizzare, questa necessità non può prevalere sugli altri interessi in gioco. Pensiamo alla presunzione di innocenza».