La chiamano in tanti modi: carne artificiale, sintetica, in vitro, coltivata, persino carne Frankenstein. In realtà, parliamo di un prodotto assimilabile alla carne tradizionale, ottenuto non da un animale, ma da cellule muscolari coltivate in laboratorio. Un processo ancora in fase di sviluppo, ma già avanzato, tanto da alimentare un dibattito acceso tra chi la vede come una minaccia e chi, invece, la considera una promessa per il futuro. Il tema resterà centrale nel contesto alimentare per i prossimi decenni. Ma per affrontarlo seriamente, occorre chiarezza: la carne coltivata non è fantascienza, è una tecnologia alimentare reale, sempre più regolata. E soprattutto, non può essere trattata come un nemico a prescindere, se davvero si vogliono affrontare le sfide del futuro.
Le normative
Produrre carne in laboratorio a partire da cellule animali isolate è tecnicamente possibile. A Singapore, in Israele, presto negli Stati Uniti, si può già assaggiare un pollo o una salsiccia “coltivati” in bioreattori. L’Europa si prepara a regolare il settore attraverso la procedura del Novel Food, che prevede rigide valutazioni di sicurezza da parte dell’apposita agenzia Ue, l’Efsa.
Sul fronte normativo, l’Unione ha delineato un quadro coerente con il Green Deal e la strategia Farm to Fork, in cui il principio di precauzione non rappresenta un freno ideologico, ma uno strumento giuridico per affrontare l’incertezza. Consente di sospendere o limitare l’uso di un prodotto solo in presenza di rischi plausibili e fondati su dati scientifici, e richiede che eventuali misure siano proporzionate, temporanee e coerenti con interventi analoghi. In questo quadro, il divieto introdotto dall’Italia nel 2023 ha suscitato attenzione per il suo carattere assoluto.
La misura, adottata in assenza di una valutazione tecnica da parte dell’EFSA, solleva interrogativi circa la coerenza con principi e regole UE, in particolare in materia di libero scambio delle merci. È legittimo chiedersi se un simile approccio sia in linea con una gestione regolatoria fondata su dati scientifici e sulla valutazione del rischio, come previsto dalla normativa unionale in materia alimentare. Ma la questione non è solo giuridica. È prima di tutto etica e ambientale. Gli allevamenti intensivi, da soli, non possono più garantire né sostenibilità né sicurezza.
Non si tratta soltanto delle emissioni di CO2: entrano in gioco anche il consumo idrico, la deforestazione, l’antibiotico-resistenza, il rischio di zoonosi e le condizioni di vita di milioni di animali negli allevamenti intensivi. In questo contesto, la carne coltivata può rappresentare un tassello nella costruzione di un sistema alimentare più sostenibile. È evidente che la coltura cellulare non è oggi una tecnologia matura o a impatto zero: i costi sono ancora alti, i terreni di coltura pongono interrogativi anche etici, l’efficienza energetica va migliorata, le ripercussioni in termini di salute ancora esplorate del tutto.
Proprio per queste ragioni è essenziale investire nella ricerca pubblica, nel monitoraggio indipendente e nella definizione di standard condivisi. Una governance efficace non dovrebbe limitarsi a porre ostacoli, ma accompagnare l’innovazione, indirizzandola verso obiettivi di sicurezza, trasparenza e sostenibilità. In questo senso, più che barriere preventive, servono strumenti di valutazione rigorosi e aggiornati, capaci di garantire tutela e fiducia senza rinunciare al progresso. Infine, va ricordato che la carne coltivata nasce anche da un’urgenza morale. Ogni anno, solo in Italia, oltre 600 milioni di animali terrestri vengono uccisi per scopi alimentari. Se esiste una via che può ridurre tale numero, dovremmo almeno esplorarla. Oggi più che mai, l’unica vera scelta irresponsabile è smettere di cercare.