La Legge di Bilancio 2025 introduce una serie di misure fiscali che avranno un impatto diretto sulle imprese italiane che operano nel digitale, in particolare le startup. Tra queste, spicca la tassazione del 3% sui ricavi derivanti da servizi digitali, una misura che, pur pensata per regolamentare i grandi player globali della tecnologia, potrebbe gravare sulle giovani imprese innovative. A ciò si aggiunge il requisito normativo del capitale sociale minimo, che rende la situazione più complessa.
Cosa dice la legge
La Digital Services Tax è stata introdotta originariamente con la legge di bilancio del 2019 e prevede un’imposta del 3% sui ricavi derivanti da specifici servizi digitali, come le piattaforme di intermediazione, la pubblicità online e la trasmissione di dati generati dagli utenti. La Legge di Bilancio 2025 ribadisce l’applicazione di questa imposta, rendendo le startup soggetti passivi se raggiungono determinate soglie di ricavi. Sebbene l’obiettivo sia tassare le multinazionali, il rischio è che anche le startup italiane, che sono per natura imprese in fase di crescita, debbano confrontarsi con un carico fiscale che può rallentare il loro sviluppo. Per molte startup, la fase iniziale del business richiede grandi investimenti per acquisire utenti e sviluppare il prodotto; il 3% sui primi ricavi potrebbe rappresentare una riduzione delle risorse vitali per crescere e scalare rapidamente.
Il capitale sociale minimo
A complicare il quadro si aggiunge il requisito, introdotto dall’articolo 25 del Decreto Legge 179/2012, che stabilisce per le startup innovative un capitale sociale minimo di 20mila euro. Questo requisito, pensato per garantire una maggiore solidità finanziaria e credibilità delle imprese, potrebbe rappresentare un ostacolo per molti aspiranti imprenditori, specialmente quelli in fase pre-seed o seed, che spesso avviano l’impresa con risorse limitate. Il capitale sociale elevato combinato alla tassazione sui ricavi digitali crea dunque una doppia pressione sulle startup.
L’impatto sulle startup
L’effetto combinato di queste normative rischia di avere impatti significativi sull’ecosistema delle startup italiane. Molte startup potrebbero decidere di posticipare o limitare la propria crescita, attendendo tempi più favorevoli per espandere i propri servizi o spostando parte delle loro attività all’estero, in paesi con regolamentazioni fiscali più agevoli. Questo, in un contesto dove l’Italia sta cercando di stimolare l’innovazione e la trasformazione digitale, potrebbe rallentare l’intero ecosistema tecnologico. Il settore fintech, in particolare, che negli ultimi anni ha visto una rapida crescita in Italia, potrebbe subire i maggiori contraccolpi, poiché molte delle nuove imprese operano in aree altamente digitalizzate e potrebbero essere tra le più colpite dalla nuova tassazione e dai requisiti di capitale.
L’analisi
È chiaro che l’intento del legislatore è regolamentare in modo efficace un settore in rapida crescita, ma è altrettanto evidente che sono necessari correttivi per evitare di penalizzare le startup innovative, un asset strategico per il futuro del Paese. Sarebbe auspicabile che il governo valutasse agevolazioni fiscali per le startup in fase iniziale o esenzioni temporanee dalla tassazione sui servizi digitali fino al raggiungimento di soglie più alte di fatturato. Allo stesso modo, il requisito del capitale sociale potrebbe essere modulato in funzione delle dimensioni e del ciclo di vita delle imprese, in modo da non scoraggiare l’avvio di nuovi progetti imprenditoriali. L’Italia si trova di fronte a una scelta importante per il futuro del proprio ecosistema startup. Se da un lato le misure fiscali possono garantire maggiore equità e risorse per lo Stato, dall’altro è fondamentale evitare che queste stesse misure diventino un freno per l’innovazione. Il bilancio tra regolamentazione e incentivazione sarà la chiave per assicurare che le startup possano continuare a essere un motore di crescita per il Paese.