Con un interessante sentenza, pubblicata il 20/10/2022 n.1576, il Tribunale di Trani, giudice istruttore Dott. Sciascia, ha chiarito una serie di principi in tema di comunione legale dei beni: apertura di conto corrente cointestato a firma disgiunta, ripartizione del danaro in sede di crisi coniugale, ricostruzione dei rispettivi prelievi fatti prima dello scioglimento della comunione.
Con ciò non dando per scontato che il denaro giacente sul conto corrente comune, al momento dello scioglimento della comunione, debba essere diviso esattamente a metà tra i coniugi.
Ha, invece, ritenuto necessario ricostruire la vita del conto corrente cointestato nell’arco del matrimonio con individuazione di risparmi che costituiscono beni personali, sia pure depositati sul conto corrente, e di quelli che, non potendo essere qualificati come tali, cadono in comunione immediata o differita (ovvero, in quest’ultimo caso, solo al momento in cui la comunione si scioglie per legge).
Interessante anche che lo stesso giudice, sulla base della documentazione allegata dalle parti (estratti conto etc.), senza servirsi di una consulenza tecnica di ufficio, abbia ricostruito il transito del denaro sul conto corrente per giungere alle conclusioni della sentenza di cui si scriverà.
Un coniuge citava in giudizio l’altro dal quale si era già separato legalmente.
Il giudizio di separazione e quello di rimborso allo stato non sono cumulabili in un’unica domanda ma richiedono giudizi autonomi che spesso procedono paralleli, andando contro, invero, al principio dell’ economia processuale.
Si chiedeva nel nuovo giudizio di accertare la spettanza del danaro transitato sul conto corrente cointestato.
Sul conto corrente era confluito del denaro che le parti in qualche modo si erano già diviso perché, al momento della separazione di fatto e nello stesso lasso temporale, avevano effettuato dei prelievi di importo pressocchè uguale.
In realtà il denaro confluito su quel conto apparteneva in parte in via esclusiva ad uno dei coniugi.
Infatti l’attore deduceva, onde perorare la propria causa, che subito dopo il matrimonio veniva acceso un conto corrente cointestato sul quale il primo versamento era costituito da danaro derivante da un deposito a risparmio aperto prima del matrimonio.
Sul medesimo conto corrente erano confluiti, poi, dei soldi provenienti da un rimborso capitale di una polizza personale vita e da un indennizzo per un infortunio sul lavoro.
Nonché deduceva il coniuge che quel conto fosse stato alimentato negli anni esclusivamente da lui che lavorava, al contrario dell’altro coniuge che mai aveva versato alcunchè, omettendo anche di condividere il ricavato di vendita di beni personali acquisito, invero, nel periodo di conclamata crisi coniugale.
In buona sostanza chiedeva accertarsi che, sebbene quel conto fosse stato estinto ed il denaro fosse stato diviso, in realtà a lui dovesse essere attribuito l’intero importo o quantomeno una percentuale maggiore.
Veniva, difatti, accusato l’altro coniuge di essersi appropriato di danaro non suo.
Cosa poi sconfessata in gran parte dalle risultanze del processo.
Il marito, in via principale, chiedeva che gli venisse rimborsata una somma anche maggiore di quella giacente sul conto al momento della cessazione della convivenza, ritenendo doversi restituire somme consumate durante la vita matrimoniale.
Così in buona sostanza volendo escludere la moglie casalinga da qualsiasi spettanza su tale denaro ora perché di natura personale e accumulato prima del matrimonio, ora perché derivante da beni che non cadono in comunione, ora perché derivante da propria attività lavorativa.
Con una sentenza complessa il Giudice di Trani ha cercato, analizzando tutte le operazioni transitate dal conto corrente cointestato nell’arco della vita matrimoniale, dieci anni, di distinguere tra denaro riconducibile a beni personali (disinvestimento polizza assicurativa, giroconto da risparmi pregressi, risarcimento infortunio sul lavoro) che non cade in comunione, da denaro, invece, derivante dall’attività lavorativa del solo coniuge in corso di matrimonio che cade in comunione.
Escludendo ovviamente ciò che è stato speso e prelevato per esigenze della famiglia.
Per inciso l’altro coniuge era una casalinga, sebbene l’attore avesse cercato di dimostrare con prove testi che avesse svolto lavoro a “nero”.
Il coniuge, costituendosi in giudizio, aveva dimostrato che il versamento iniziale non era solo derivante da patrimonio del coniuge posseduto prima del matrimonio ma aveva anche ad oggetto regalie in denaro ricevute il giorno del matrimonio e versate sul conto cointestato proprio tre giorni dopo.
Altresì evidenziava che, nella ricostruzione del denaro transitato da quel conto, non si potesse fare riferimento a ciò che era stato speso per le esigenze della famiglia e che, al momento della divisione di quel denaro, dovesse anche fittiziamente essere ricostruita la comunione, con la valutazione di altri beni mobili che ne facevano parte al fine di calcolare eventuali rimborsi.
Per esempio dimostrava l’acquisto con danaro proveniente dal conto di un’automobile rimasta in proprietà del marito, nonché l’attribuzione allo stesso di tutti i beni mobili della casa coniugale di cui ad inventario redatto dalle parti.
Fatti che dovevano essere valutati e quantificati economicamente.
Eccepiva, poi, che il danaro fosse stato costantemente investito e disinvestito a più riprese negli anni in titoli e che, per orientamento della Cassazione , tutto cadesse automaticamente in comunione, in quanto diritto di credito.
Altresì, ed in subordine, evidenziava si trattasse di donazione indiretta del denaro caduto su quel conto corrente del quale il coniuge rivendicava l’esclusiva proprietà.
La domanda iniziale dell’attore di restituzione di €67.000,00 veniva solo parzialmente accolta dal Giudice e condannato l’altro coniuge al pagamento della sola somma di €20.000,00.
Avendo quantificato in €20.000,00 i risparmi di natura personale non caduti in comunione.
Nel mentre venivano accolte le eccezioni della convenuta in merito ai regali di nozze in danaro che erano transitati da quel conto corrente, al denaro utilizzato per le esigenze della famiglia che non poteva essere oggetto di restituzione, ai conguagli per altri beni mobili non divisi tra i coniugi.
La Sentenza è stata un’ occasione per chiarire da parte del giudice una serie di principi. Primo principio che lo scioglimento della comunione dei beni viene collegato alla data di sottoscrizione del processo verbale della separazione, nel caso di consensuale, o dalla comparizione personale in sede Presidenziale, nel caso dei giudizi di separazione giudiziale. Quindi da questo momento in poi ogni acquisto non cade più in comunione.
Il Tribunale di Trani ha chiarito in che misura parte delle somme fossero beni personali del coniuge sottolineando “la volontà del legislatore di assicurare a ciascun coniuge la titolarità esclusiva dei beni acquistati senza l’apporto nemmeno indiretto dell’altro tra cui anche il denaro posseduto anteriormente al matrimonio, che ha natura personale e dei beni strumentali “all’esplicazione della sua personalità”.
Ha statuito che “ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dalla norma ovvero per soddisfare le esigenze della famiglia. Quindi il diritto alla restituzione delle somme sorge anche se uno dei due coniugi abbia prelevato dei soldi da quel conto senza farne un uso nell’interesse della famiglia”.
Ha il giudice comunque evidenziato, e sul punto ha rigettato la domanda dell’attore, che i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, non consumati, cadono in comunione dei beni e quindi non possono essere oggetto di attribuzione esclusiva al coniuge che ha prodotto quei redditi in costanza di matrimonio.
Ha chiarito poi, richiamando precedenti giurisprudenziali della Cassazione che “non si può parlare di donazione indiretta da parte del coniuge che versa denaro di natura personale sul conto corrente cointestato. Questo in quanto il versamento di una somma di denaro da parte di un coniuge su conto corrente cointestato all’altro coniuge non costituisce di per sé atto di liberalità. Infatti l’atto di cointestazione con firme e disponibilità disgiunte di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito che risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari può essere qualificata come donazione indiretta solo quando si è verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva nel momento della detta cointestazione altro scopo che quello della liberalità”.
Amara considerazione finale: una coppia che senza figli poteva separarsi in tranquillità ed in accordo si è trovata nelle aule dei tribunali per troppi anni coinvolta in procedimenti paralleli defaticanti e dispendiosi.
Cinzia Petitti è avvocata e direttrice della rivista www.Diritto§Famiglia.it