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Diritto & Economia

Giudicato penale nel processo tributario, sul punto la Cassazione fa dietrofront

Con una recentissima sentenza (14.2.2025 n. 3800) la Corte di cassazione è intervenuta sul rapporto tra processo penale e processo tributario e sul regime della circolazione delle prove. Va premesso che la decisione è del tutto innovativa e, sotto certi aspetti, sorprendente e non condivisibile.

La norma

L’articolo 21 bis introdotto dal decreto n. 87/2024 ha stabilito, con efficacia retroattiva, che la sentenza penale di assoluzione con la formula “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti oggetto di valutazione nel processo tributario ha efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. Vale a dire che se il contribuente è imputato davanti al giudice penale per false operazioni commerciali, viene assolto perché quelle operazioni non sono connotate da falsità oppure perché non lo ha commesso, la sentenza penale passata in giudicato deve essere applicata dal giudice tributario quanto ai fatti accertati aventi rilievo fiscale. Il giudice tributario dovrà previamente valutare la medesimezza dei fatti oggetto dei due processi. Per fatto accertato dal giudice penale deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica, costituita dall’accadimento oggettivo, accertato dal giudice penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità materiale tra causa ed evento e le circostanze di luogo, tempo e modi di svolgimento. Una volta che il giudice tributario con propria valutazione motivata abbia effettuato il riscontro circa l’identità dei fatti, dovrà ritenere raggiunta la prova circa l’insussistenza della responsabilità tributaria del contribuente e della sua obbligazione fiscale.

L’analisi

Si tratta di un ritorno al passato (d.l. n. 429/1982) il cui art. 12 prevedeva che “la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativa a reati previsti in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto, ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale”. Attualmente solo la sentenza di assoluzione con formula piena ma non quella di condanna ha rilievo nel processo tributario; parimenti non hanno rilievo le altre formule legate, ad esempio, al patteggiamento o al giudizio abbreviato. Invertendo la rotta rispetto a precedenti pronunce della Suprema Corte, la sentenza in esame ha compiuto una brusca virata e ha stabilito, con una motivazione non condivisibile, che il giudicato riguarderebbe soltanto l’applicazione delle sanzioni. L’incidenza del giudicato assolutorio penale sulla sola sanzione (con la conseguenza che il giudice tributario non potrà irrogarla al contribuente) lascerebbe inalterato il regime della prova e la rilevanza della decisione penale sul rapporto d’imposta.

La conclusione

L’approdo ermeneutico diventa allora dirompente, complicando un’asimmetria che la sentenza dice di voler ricondurre a coerenza: il processo tributario rischierebbe di mandare indenne il contribuente dal pagamento della sanzione ma lo condannerebbe al pagamento dell’imposta rispetto alla quale la sanzione è un accessorio. Di conseguenza, non appare logico il giudizio contenuto nella sentenza secondo cui si tratterebbe di due oggetti radicalmente differenti (sanzione e imposta), poiché la sanzione poggia sull’imposta, deriva dalla declaratoria di debenza dell’imposta e non il contrario. La giustificazione vien fatta riposare sulla finalità del legislatore di realizzare un regime sanzionatorio non contraddittorio e proporzionato, mentre il regime della prova resterebbe codificato in modo immutato, sì da affidarne il governo ai giudici naturali nel riparto della giurisdizione. Ma a questo punto il legislatore sarebbe intervenuto sul rapporto di specialità (art. 19) se avesse avuto presente la finalità divisata dalla Suprema Corte.

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