Ddl Sicurezza, parla Fornari (Giustizia penale): «È un disegno improntato alla repressione»

«Il diritto penale dovrebbe occuparsi di quei pochi fatti rispetto ai quali qualsiasi altra forma di intervento dello Stato sarebbe inutile». È quanto sostiene Giuseppe Fornari avvocato e componente del Comitato Scientifico Giustizia Penale.

Avvocato, qual è il sentiment rispetto al recente ddl sicurezza?

«È un disegno di legge improntato ad una cultura prevalentemente della repressione che tende a considerare il diritto penale uno strumento per risolvere problemi sociali, alcuni epocali, come ad esempio l’immigrazione. È espressione di quella che in gergo chiamiamo una cultura “pan-penalistica” che cerca soluzioni a quanto la società contemporanea ci presenta, attraverso il diritto penale».

Può fare qualche esempio?

«Prendiamo il caso dell’immigrazione: la soluzione principale dovrebbe riguardare gli strumenti di regolamentazione e di preparazione all’accoglienza. Stesso discorso per la tutela della sicurezza urbana: manca una gestione ordinata del problema, partendo da misure come l’introduzione di più verde e la maggiore illuminazione delle città, in modo da prevenire la commissione di reati. Il diritto penale deve essere usato solo come estrema ratio. Questo disegno di legge va in direzione contraria, con l’idea che si possa risolvere il problema con il timore della punizione. Tuttavia, ci sono centinaia di studi sociologici e giuridici che dimostrano che l’inasprimento delle pene e l’aumento del numero dei reati non sono in un rapporto di causa effetto».

Cosa bisognerebbe rivalutare?

«Ad esempio, in tema di sicurezza urbana si introduce il tema del daspo sui trasporti. In particolare lo si estendere ai soggetti denunciati o condannati per reati contro la persona o il patrimonio, per vietare l’accesso alle infrastrutture e pertinenze di trasporto pubblico. Tutto per cercare di combattere l’accattonaggio o di evitare che le stazioni di metro e treni diventino dormitori. Forse sarebbe meglio pensare ad un sistema di assistenza e supporto sociale. Poi c’è la questione della micro criminalità».

Cioè?

«Per contrastare il fenomeno di furti e scippi specialmente nei grossi centri cittadini – il caso più noto alle cronache recenti è quello di scippi ad opera di donne di etnia rom, spesso in gravidanza – viene prevista la detenzione in istituti di custodia attenuata, al posto di quella domiciliare, anche per donne incinte o con figli di età sino ad un anno. Anche qui non c’è nessuno spunto che faccia pensare alla prevenzione o all’ inserimento di queste persone nell’ambito di una vita legale».

C’è da parte del Governo la volontà di rassicurare rispetto ad una richiesta di sicurezza dei cittadini?

«Certamente, purtroppo la storia dice che questo è un Paese in cui si legifera quasi sempre sull’onda emotiva, indipendentemente dalla forza politica. Questo è un errore perché, in linea di massima, le norme dovrebbero valere per un po’ di anni. Inoltre, immaginare che il carcere posso rispondere alla necessità di sicurezza che chiedono i cittadini è un errore».

Qual è il rischio?

«L’aumento della mole di lavoro per gli operatori del settore, ingolfare i tribunali con processi su tanti piccoli fatti, rallentando tutto il sistema, creare un imbuto e impedire ai magistrati di occuparsi delle cose rispetto alle quali il diritto penale ha veramente senso, come i reati di criminalità organizzata, la corruzione. Rischiamo tempi più lunghi per le sentenze, più difficoltà ad arrivare a conclusione del processo prima che i reati si prescrivano».

Cosa si può salvare del disegno di legge?

«Si è fatto bene sul reato di usura perché si introducono misure di sostegno agli operatori economici vittime, quali la previsione della possibilità di servirsi di un esperto con funzione di consulenza ed assistenza».

Cosa andrebbe assolutamente rivisto?

«Oltre a quanto già detto, aggiungo che, con riferimento al tema della “Tutela del personale delle forza armate” viene prevista la possibilità di consentire il possesso, in aggiunta l’arma di ordinanza nell’esercizio della propria attività, anche di “armi”, non definite, in momenti che esulano dalle ore di servizio. Spero di sbagliarmi ma potrebbe essere l’introduzione di un principio che allarga le maglie dell’utilizzo delle armi che può portarci ad una situazione analoga a quella degli Stati Uniti. Le forze armate devono ovviamente disporre di dispositivi di protezione adeguati, non comprendo l’allargamento alle ore fuori servizio».

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