Ddl Sicurezza, c’è il rischio che aumenti la popolazione detenuta. Speriamo nel ripensamento

Il Consiglio dei ministri ha approvato un pacchetto sicurezza che contiene tre disegni di legge, in materia di sicurezza pubblica, di tutela delle forze di polizia, di inasprimenti di pena con l’introduzione di nuovi reati. Non si possono nascondere perplessità e preoccupazioni per questi disegni di legge approvati al dichiarato fine di assecondare il sentimento di insicurezza diffuso nella collettività. Si teme che la conseguenza sarà solo più carcere, ma non sicurezza.

Preoccupazione suscita, principalmente, l’autorizzazione al personale di polizia di portare con sé armi al di fuori dal servizio per il rischio per l’incolumità personale che un aumento di armi nella circolazione dei cittadini possa generare (si pensi che il litigio per un banale incidente stradale potrebbe trasformarsi in una contesa a mano armata).

Perplessità seria per la violazione del principio di offensività e di proporzionalità, invece, emerge per l’innalzamento dei limiti edittali per reati già previsti (vista la discrezionalità del giudicante nel decidere tra un minimo e un massimo di pena) e l’introduzione di nuove ipotesi incriminatrici che porteranno, in breve termine, un aumento della popolazione detenuta, in costante crescita mese per mese ed abbondantemente fuori dai limiti di capienza e di dignità dei singoli Istituti di pena, contravvenendo al principio costituzionale (art. 27) secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità: un carcere sovraffollato è disumano.

In tema di sicurezza, poi, appare solo suggestiva l’abrogazione dei commi 1 e 2 dell’art. 146 del codice penale che ha reso solo eventuale il differimento di pena per le donne incinte e le madri di prole di età inferiore a un anno; per emarginare il fenomeno delle “ladre” (con chiaro riferimento a quelle di etnia rom) si rinuncia alla tutela della maternità, del nascituro, del neonato, della crescita psicofisica del minore (detenuto senza colpa) e della delicatissima relazione con la madre, interesse tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989.

Del reato, la legge sull’ordinamento penitenziario già prevedeva la norma che consentiva di arginare il rischio di reiterazione dei reati delle “madri” con la detenzione domiciliare, misura detentiva a tutti gli effetti. Inutile, ancora, l’introduzione di un nuovo reato di “rivolta” in carcere, nei centri di trattenimento e accoglienza per migranti; la storia giudiziaria dimostra che tutte le proteste nate nelle carceri italiane (soprattutto in epoca covid) hanno sempre portato all’apertura di procedimenti disciplinari con conseguenze sui benefici penitenziari dei detenuti facinorosi, ovvero nei casi più gravi di procedimenti penali per il reato di sequestro di persona a scopo di coazione con pene dai 25 ai 30 anni di reclusione.

Assolutamente criticabile, perché in direzione opposta al principio costituzionale (art. 27) della pena finalizzata alla rieducazione del reo, è l’ampliamento (già intollerabile) del catalogo dei delitti ostativi ai benefici penitenziari. In conclusione, sembrerebbe che, anche questa volta, non si sia centrato il cuore del problema avendo preferito la repressione penale all’incremento degli strumenti sociali di prevenzione capaci di incidere su quei disagi sociali procreatori di vite da criminali. Per l’approvazione definitiva i disegni di legge dovranno passare in Parlamento dove ci si augura che le discussioni dei parlamentari siano di spessore sui temi della libertà personale, della offensività del reato, della proporzionalità della pena e che ci sia un ripensamento degno di un paese liberale e democratico.

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