Dagli anni ’50 agli anni ’90 del Novecento, numerosi imprenditori e personalità italiane o loro familiari sono stati vittime di sequestri di persona a scopo di estorsione. Il fenomeno terrorizzò la popolazione: in Italia si sono contati 694 sequestri avvenuti per mano della criminalità, che hanno prodotto un giro d’affari di circa 800 miliardi lire. Tra i più noti e crudeli si ricorda quello del bambino Farouk Kassam di soli sette anni, la cui prigionia durò sei mesi, durante i quali subì anche la mutilazione di un orecchio; il riscatto pagato – stando alle dichiarazioni del mediatore – fu di 5 miliardi e 300 milioni di lire.
Fortunatamente il fenomeno si è andato via via affievolendo nel corso degli anni ’90 per più ragioni: – la maggiore preparazione sviluppata da appositi nuclei delle Forze dell’Ordine; – il potenziamento delle tecnologie di intelligence; – l’innalzamento della pena per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione prevista dal codice penale; – l’eccessivo clamore mediatico che comportava conseguenze negative sulle altre attività criminali dell’organizzazione; – l’introduzione della legge sul blocco dei beni delle famiglie degli ostaggi.
Parallelamente al venir meno dei sequestri si è assistito all’avvento del progresso tecnologico che ha provocato numerosi cambiamenti a cui la criminalità ha saputo adeguarsi in tempi brevissimi, cogliendo l’occasione per individuare nuove forme di finanziamento, meno pericolose, ma ugualmente redditizie. Del resto, la criminalità, sia essa organizzata in sistemi strutturati, sia quella improvvisata o rudimentale ha, tra gli scopi primari, l’accumulo di risorse economiche.
E così, alla creazione di nuove tecnologie e sistemi di sicurezza, si è affiancata l’attività di chi quei sistemi poteva danneggiarli o sfruttarli al meglio e a proprio vantaggio. È storia. Sin dalla nascita di avanzati sistemi di telecomunicazioni a distanza, si registrarono i primi attacchi di tipo “cyber”: era il lontano 1834 e i protagonisti furono due speculatori finanziari francesi che riuscirono a decriptare i messaggi del telegrafo in uso al governo francese, in modo tale da conoscere le fluttuazioni finanziarie prima che le stesse venissero divulgate. L’azione però richiese la collaborazione di due soggetti interni al sistema che furono corrotti diventando complici dei due fratelli. Ed infatti, è proprio la presenza e l’imprevedibilità del comportamento umano uno dei fattori che non consente di arginare del tutto i rischi in materia.
Il proliferarsi del crimine informatico è impressionante: gli attacchi informatici in Italia sono aumentati, rispetto all’anno precedente, del 246% solo nel 2020.
Così come i sequestri di persona a scopo di estorsione, anche gli attacchi cyber richiedono un periodo di preparazione e lo sviluppo di più fasi (come meglio spiegato in questa pagina dall’avvocato Tupputi). Non sappiamo quanto tempo trascorrerà prima che anche la stagione del cybercrime volga al termine, né quanto altro denaro confluirà nelle casse della malavita. Prima che questo avvenga, tuttavia, l’esperienza ci insegna che è necessario non smettere di investire nel settore della ricerca: l’affinamento delle tecniche di intelligence è un grande strumento di contrasto al crimine, proprio come ci ha insegnato la triste stagione dei sequestri.
L’esperienza italiana nella lotta al fenomeno dei sequestri di persona, infatti, è dimostrativa della necessità di rendere difficoltoso l’arricchimento da parte dei sequestratori per arginare il sistema.
Pertanto, unitamente alla sofisticazione della digital forensics, alla sempre maggiore cooperazione con l’Unione Europea e gli stati esteri, all’inasprimento delle pene, il diritto penale dovrebbe valutare la necessità di istituire una legge simile a quella sul blocco dei beni, la legge n. 82 del 1991, che stabilì l’obbligo del «sequestro del beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge, e ai parenti e affini conviventi». La norma prevedeva anche la possibilità di un sequestro facoltativo nei confronti di «altre persone» se vi fosse stato il «fondato motivo di ritenere che tali beni» potessero essere utilizzati «direttamente o indirettamente, per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima».
Una siffatta soluzione rischierebbe di essere di difficile attuazione poiché, mentre nei casi di sequestri di persona, la notizia era ampiamente diffusa e quindi conosciuta anche alle Autorità, nel mondo del cyber crime, tantissime sono le richieste estorsive assecondate senza essere divulgate; ma la differenza, anche sotto il profilo criminologico e culturale non sarebbe di poco momento: oggi pagare l’estortore è una condotta lecita che alimenta un ricchissimo meccanismo illecito.
Valeria Logrillo è avvocata penalista del foro di Milano e dottoressa in Scienze investigative