È recente la riapertura del dibattito sulla modifica della normativa in materia di cittadinanza (legge n. 91/1992), nonché sui criteri di acquisizione dello status di cittadino. Come noto, la predetta legge ruota intorno allo ius sanguinis, in virtù del quale la trasmissione della cittadinanza italiana avviene da genitore a figlio. A sollevare forte timore è l’ipotesi del così detto ius scholae, già oggetto di discussione nelle sedi istituzionali, come dimostrano i progetti di legge presentati negli ultimi tempi dalle forze politiche progressiste.
L’ipotesi di modifica
Oggi, la proposta di riforma prevede “l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte del minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e che risieda legalmente in Italia, qualora abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è necessario aver concluso positivamente il corso medesimo.” Lo ius scholae, a differenza dello ius soli, trova accoglimento non solo nel fronte d’opposizione, ma anche nella maggioranza di governo e, specificatamente nella parte moderata della stessa.
Il commento
Chi scrive non è propenso a entrare nel merito politico, quanto ricordare che la Carta costituzionale riconosce e garantisce i diritti inviolabili non solo al cittadino, bensì all’uomo “in quanto tale”. Nel corso del tempo, la giurisprudenza costituzionale ha altresì esteso agli stranieri i diritti formalmente riservati ai cittadini, sulla base del fatto che non è ragionevole escludere i non cittadini dal godimento delle libertà e dall’adempimento dei doveri di solidarietà. Nel 2007, già la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione – tesa a riprendere i principali “nodi” posti dalla multiculturalità alle società occidentali – stabiliva che “per ottenere la cittadinanza nei tempi previsti dalla legge occorre conoscere la lingua italiana e gli elementi essenziali della storia e della cultura nazionali, e condividere i principi che regolano la nostra società. Vivere sulla stessa terra vuol dire poter essere pienamente cittadini insieme e far propri con lealtà e coerenza valori e responsabilità comuni”.
È innegabile che la disciplina vigente tenda a prospettare uno scenario non corrispondente alla realtà, andando a inquadrare il nostro come un Paese di emigrati, piuttosto che come un Paese di immigrati, tenuto ad assicurare un futuro a chi vive stabilmente sul territorio e contribuisce all’arricchimento dello stesso. Tuttavia, quel che si avverte maggiormente è l’esigenza di concentrare l’attenzione sulla pianificazione di un’educazione alla cittadinanza.
Educare alla cittadinanza significa “progettare un’educazione etico-sociale in grado di formare gli individui all’intera gamma delle dimensioni del sociale: da quelle che richiedono un’elevata capacità di autonomia a quelle che domandano partecipazione consapevole all’esperienza sociale, a quelle, infine, che postulano l’esigenza della condivisione con altri singoli e gruppi” (M. Ávila, B. Borghi, I. Mattozzi (curr.) L’educazione alla cittadinanza europea e la formazione degli insegnanti. Un progetto educativo per la “strategia di Lisbona”, Bologna, 2009,13). In via definitiva, rivedere il testo normativo costituisce una condizione “necessaria” ma non “sufficiente” ai fini della risoluzione del problema: solo una volta definito il “duplice volto” della cittadinanza, sarà possibile mettere in atto una pluralità di attività e di interventi finalizzati a garantire l’integrazione degli stranieri.
Luana Leo è dottoranda di ricerca presso l’Università Lum