Il dibattito sui cibi sintetici è alimentato dai timori per la salute dei consumatori e da domande che riguardano l’evoluzione o l’involuzione del mercato agroalimentare. «Considerazioni avviate senza nessuna base che ci possono lasciare indietro dal punto di vista dell’innovazione della produzione. Un dispendio di energie nel vietare qualcosa che ancora non esiste in commercio. Merce che, probabilmente, a causa delle barriere economiche iniziali del mercato, avremo comunque difficoltà a produrre», secondo Mariangela Figlia, consumer and market analyst, che boccia i proibizionisti e ipotizza che cibi sintetici e bio- diversità, in un futuro prossimo, potranno convivere senza che il Made in Italy venga penalizzato.
Dottoressa, cosa pensa del disegno di legge che vieta la produzione dei cibi sintetici?
«Sono sorpresa dalla decisione presa su un prodotto che ancora non esiste in nessun Paese tranne che a Singapore, dove, peraltro, è presente con una minima commercializzazione».
Qual è il sentiment attuale sull’argomento?
«È difficile fare delle previsioni su un prodotto non ancora sugli scaffali. Tutto quello che sappiamo deriva dalle indagini fatte sui consumatori e dalle attuali tendenze. Alcuni studi prevedono che la carne coltivata raggiungerà un mercato di oltre 170 miliardi di dollari l’anno. Altri dicono che entro il 2040 oltre il 35% della carne che consumeremo sarà di origine sintetica. In realtà sono tutte previsioni. Le variabili sono tante: il prezzo, il posizionamento sul mercato, il numero di aziende che si faranno concorrenza, il gradimento o meno dei consumatori. I sondaggi effettuati rivelano che la maggior parte delle persone non esclude “di provare” questo prodotto. C’è insomma curiosità. Tutto il mondo asiatico si dichiara favorevole ad assaggiare la carne sintetica. In America un consumatore su tre dice di volerla provare, così come tutto il Nord Europa. Non è un caso che i paesi nord europei, incluso Germania e Francia, che sono maggiormente “open mind” sul tema, sono anche i luoghi in cui c’è la percentuale più alta di consumatori che hanno una dieta prevalentemente vegetale. Proprio in virtù di questo si stanno impegnando per ridurre al minimo il consumo di carne».
In Italia?
«Rappresentiamo la parte del continente più conservatrice dal punto di vista alimentare. sperimentiamo meno. C’è da dire che produciamo tanto per esportare. Se i paesi a cui vendiamo i nostri prodotti manifestano la volontà di non voler più consumare così tanta carne, abbiamo sicuramente un problema. Proprio per questo motivo chiudersi all’innovazione produttiva potrebbe, nel lungo periodo, rivelarsi un atteggiamento miope».
Cosa spaventa di più?
«I consumatori non sono spaventati, quantomeno perché non conoscono il prodotto, non sono neanche in grado di dire a che prezzo la comprerebbero. Le associazioni di categoria, in particolar modo Coldiretti e a seguire il governo, sono preoccupati dalla possibile sostituzione della carne tradizionale. Temono che a soffrire sarà tutto il settore zootecnico. È sicuramente una motivazione comprensibile ma è altamente irrealistico pensare che nel giro di pochi decenni possa avverarsi una simile situazione».
Sbagliano?
«È piuttosto verosimile pensare che nei prossimi 20 anni ci sarà una compresenza di prodotti di provenienza animale, prodotti vegetali e prodotti proteici alternativi come ad esempio le farine di insetti».
Qual è il futuro del mercato agroalimentare?
«Siamo in una fase di transizione. Adesso si sta decidendo se aprire alla produzione e alla commercializzazione non solo del cell based food. Tutto il comparto delle proteine alternative sta diventando una vera e propria calamita per gli investimenti ed è destinato a scardinare le attuali regole del gioco. Verosimilmente dobbiamo anche valutare che dal punto di vista ambientale gli attuali ritmi di produzione non saranno sostenibili ancora per molto. Poi c’è anche la questione del trend e delle richieste del mercato di riferimento. Oggi soprattutto le fasce più giovani scelgono cosa comprare sulla base di quanto il brand è impegnato nelle “politiche green”. Non bisogna dimenticare che questi consumatori, che attualmente rappresentano una piccola fetta, sono gli acquirenti di domani».