Un alimento nuovo, ottenuto con mezzi tecnici sofisticati e non assimilabile, né per processo né per composizione, a ciò che chiamiamo convenzionalmente carne. È la “carne artificiale” che pone una serie di sfide per il futuro. A tracciare il quadro è il professor Giuseppe Pulina, Ordinario di Etica e Sostenibilità degli Allevamenti all’università di Sassari.
Professore, può spiegarci in termini semplici come avviene il processo di produzione della carne coltivata?
«Il termine corretto è carne artificiale, perché si ottiene interamente fuori dal corpo dell’animale, in condizioni artificiali. Il processo inizia con il prelievo di cellule muscolari da un animale vivo. Queste sono trasferite in bioreattori, ambienti sterili dove, grazie a un substrato ricco di nutrienti, ormoni e fattori di crescita, si moltiplicano, prima, e si differenziano poi in fibre muscolari. Per ottenere una struttura simile a quella della carne vera, le cellule sono fatte aderire a impalcature tridimensionali che ne guidano la forma. È un processo complesso, costoso, e ancora lontano da una produzione industriale efficiente».
Quali ritiene che siano le principali sfide legate alla coltivazione di tessuto muscolare animale in laboratorio?
«Molteplici. Le cellule animali sono fragili e facilmente contaminate per cui il processo richiede condizioni altamente controllate. In secondo luogo, la rimozione delle endotossine dai terreni di coltura richiede enormi quantità di energia, rendendo il processo ambientalmente oneroso. A ciò si aggiungono i costi proibitivi dei substrati più efficaci, spesso ancora a base animale. Infine, il passaggio dalla scala di laboratorio a quella industriale è tutt’altro che semplice poiché servirebbero migliaia di bioreattori, una logistica complessa e competenze tecniche poco diffuse».
.Quali sono le differenze tra la carne ottenuta da allevamento e quella coltivata, in termini di composizione e proprietà nutrizionali?
«Sono profondamente diversi. La carne naturale è un tessuto complesso, con fibre muscolari, tessuto connettivo, grasso, vasi sanguigni e micronutrienti derivanti dalla dieta e dal metabolismo dell’animale. La carne artificiale, invece, è composta solo da alcune cellule muscolari coltivate in laboratorio e assemblate, spesso senza struttura tridimensionale completa. Non abbiamo ancora dati affidabili su valori nutrizionali completi, biodisponibilità e profilo sensoriale. Inoltre, essendo iperprocessata, è lontana da un concetto di cibo “naturale”».
Questo tipo di carne è spesso descritta come una soluzione più sostenibile. È così?
«Si tratta di un’affermazione tutta da verificare. Le analisi del ciclo di vita (LCA) oggi disponibili sono poche e basate su ipotesi ottimistiche. Alcuni studi recenti, che includono aspetti finora trascurati (quali la purificazione del medium), stimano emissioni anche superiori di diversi ordini a quelle della carne bovina. Inoltre, l’elevato consumo energetico, la dipendenza da substrati complessi e i problemi di scalabilità fanno dubitare della reale sostenibilità ambientale di questa tecnologia, soprattutto nel medio termine».
In un futuro ipotetico di produzione su larga scala, quali sarebbero i punti critici della filiera della carne coltivata?
«Le criticità sono enormi. Ogni fase, dalla produzione del terreno di coltura alla gestione dei bioreattori, è energivora e costosa. Servono competenze tecniche avanzate, ambienti sterili, controllo microbiologico rigoroso. Inoltre, lo smaltimento dei rifiuti biologici, il raffreddamento dei sistemi e la distribuzione su larga scala pongono problemi tecnici e logistici rilevanti. Oggi nessuna filiera esistente è in grado di garantire un approvvigionamento stabile e a costi competitivi».
A livello di accettabilità sociale e culturale, quali ostacoli intravede nella diffusione di questo tipo di prodotto alimentare in Italia e in Europa?
«Il principale ostacolo è culturale. In Italia e in gran parte d’Europa, la carne è legata alla tradizione, alla convivialità e al territorio. Il consumatore medio è diffidente verso un alimento percepito come artificiale, “senza storia”. La diffidenza cresce anche per la presenza di ingredienti sconosciuti, ormoni, promotori di crescita e sostanze bioattive non sempre chiaramente dichiarate. È difficile immaginare che un prodotto del genere entri stabilmente nella dieta mediterranea, che fa della naturalità e della semplicità punti di forza».