«Contro il caporalato non serve una nuova legge ma più controlli. Il decreto Cutro aggraverà il fenomeno». L’avvocata Maria Raffaela Lacerenza, specializzata in diritto dell’immigrazione, punta l’indice anche contro le difficoltà per l’ottenimento di un visto. «Spesso è il mancato ottenimento di un documento a favorire il lavoro illegale», afferma.
Avvocata, il caporalato continua ad essere una piaga del mondo del lavoro italiano. Qual è oggi la situazione in Puglia, la regione italiana che impiega più persone nel settore agricolo?
«Al 31 dicembre 2021 si contano 54.000 lavoratori stranieri, la maggior parte nel settore agricolo e domestico. Io ritengo, però, che non si possa fare affidamento su questi numeri, perché parziali, dal momento che sono presi in considerazione solo gli stranieri regolari nel territorio. A titolo esemplificativo, il quinto rapporto agromafie e caporalato, quantifica in circa 180.000 sul territorio nazionale i lavoratori particolarmente vulnerabili e quindi soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato».
È cambiato qualcosa dopo l’approvazione della legge contro il caporalato?
«Si tratta di una legge giovane e per dire che sia efficace bisogna aspettare ancora. Ad ogni modo, iniziano ad esserci condanne».
Potrebbe essere utile un inasprimento della legge?
«Punterei più che altro a rendere efficienti i controlli sui datori di lavoro».
Prevede una crescita del fenomeno alla luce degli sbarchi degli ultimi mesi?
«Sì, ma non per gli ultimi sbarchi, quelli ci sono da sempre. Prevedo la crescita del fenomeno in seguito all’ introduzione del decreto Cutro, che ha reso, nuovamente, più difficile il riconoscimento della protezione speciale. La normativa previgente garantiva un titolo di soggiorno a chi dimostrava la propria integrazione nel territorio, anche in termini di lavoro regolare. Intendo dire che chi era titolare di un regolare contratto e relative buste paga otteneva il riconoscimento della protezione speciale, e dunque un permesso di soggiorno».
Il tema del caporalato si intreccia inevitabilmente con quello dell’accoglienza. Le istituzioni fanno abbastanza per far vivere in modo dignitoso chi arriva in Puglia per lavorare nelle campagne?
«Se parliamo di strutture governative ritengo che i posti siano troppo pochi rispetto alla reale esigenza e che le condizioni di vulnerabilità della maggior parte degli stranieri presenti nel nostro territorio non siano comprese e quindi affrontate con la giusta importanza. Per questa ragione, la maggior parte dei lavoratori stranieri è costretta a vivere negli insediamenti informali (quindi senza acqua e senza corrente), sia per una questione di vicinanza al posto di lavoro, ma anche perché è difficile poter affittare autonomamente un immobile a causa della diffusa diffidenza nei loro confronti».
Cosa manca affinché i ghetti siano solo un lontano ricordo?
«Strutture adeguate soprattutto per poter accogliere anche chi è irregolare».
La denatalità mette a dura prova la tenuta del mondo del lavoro e del sistema previdenziale. Una penuria di lavoratori evidente anche nelle campagne. La soluzione è favorire ulteriormente l’arrivo di migranti?
«A mio avviso, è necessaria una riforma del diritto dell’immigrazione, soprattutto in riferimento alle modalità di ingresso nel territorio nazionale. I requisiti richiesti per l’ottenimento di un visto sono impossibili da soddisfare e le quote sono insufficienti. Per questo insisto per la regolarizzazione di chi è già in Italia. Con il riconoscimento della protezione speciale ex art. 19 comma 1.2 Tui (normativa previgente), posso concretamente affermare che vi è stato un aumento della regolarizzazione dei lavoratori stranieri con conseguente abbassamento del numero dei lavoratori irregolari. La maggior parte delle volte, a favorire il caporalato è proprio la precarietà in termini di documenti da parte dei cittadini stranieri, che sono costretti ad accettare determinate condizioni a patto della propria sopravvivenza, che si traduce, per alcuni datori di lavoro, in una scelta consapevole stante la convenienza di un costo inferiore della manodopera. E inoltre, tale sfruttamento si trasforma sovente in autentica riduzione in schiavitù che, vale la pena ricordare, rappresenta un reato».