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Aborto e Costituzione: quale verità?

Come ben noto, la temuta pronuncia della Corte Suprema degli Stati d’Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade (1973) che riconosceva il diritto costituzionale all’aborto e lo legalizzava a livello nazionale. A distanza di quarantanove anni, il medesimo organo di giustizia è giunto ad una differente conclusione, sostenendo che “la Costituzione non fa…

Come ben noto, la temuta pronuncia della Corte Suprema degli Stati d’Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade (1973) che riconosceva il diritto costituzionale all’aborto e lo legalizzava a livello nazionale. A distanza di quarantanove anni, il medesimo organo di giustizia è giunto ad una differente conclusione, sostenendo che “la Costituzione non fa alcun riferimento all’aborto e nessun diritto del genere è implicitamente protetto da alcuna disposizione costituzionale”. Nel parere redatto dal giudice Samuel Alito colpisce – ed è questo il punto cruciale – l’impellente esigenza “di dare ascolto alla Costituzione e restituire la questione dell’aborto ai rappresentanti eletti del popolo”.

A seguito della drastica decisione della Corte Suprema, il dibattito sull’aborto ha ripreso quota anche in Italia, dividendo la politica e l’opinione pubblica. È recente l’approvazione di una Risoluzione del Parlamento Europeo (324 sì, 155 no e 38 astenuti, non vincolante) fondata sulla modifica dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, poichè “ogni persona ha diritto all’aborto sicuro e legale”. Mentre la Fafce (Federazione delle associazioni delle famiglie cattoliche) ha tenuto a chiarire che “il riconoscimento di un presunto diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali Ue sarebbe in flagrante contraddizione con la Carta stessa, che sancisce il diritto all’inviolabilità della dignità umana e il diritto alla vita”, vi è chi ha approfittato del clima irrequieto per avanzare una atipica proposta di inserimento del diritto all’aborto nella Costituzione Italiana.

La querelle è complessa. Occorre partire dal presupposto che in Italia il diritto all’aborto non è stato mai esplicitamente definito come tale, tant’è che la stessa legge n. 194/1978 ricorre all’espressione “interruzione volontaria della gravidanza”.

Con la sentenza n. 27/1975, il Giudice delle Leggi ha statuito “l’obbligo del legislatore di predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione”. In tale senso, la legge n. 194/1978 delinea puntuali misure per prevenire ed evitare quanto sopraindicato: i consultori familiari devono assistere la donna in stato di gravidanza “contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (art. 2, lett. d); tali strutture sono chiamate a trovare “le possibili soluzioni dei problemi proposti”, in modo tale da aiutare la donna a rimuovere le cause che la condurrebbero ad assumere la scelta più drastica, promuovendo contemporaneamente qualsiasi necessario intervento volto a supportare la stessa (art. 5, co. 1). In concreto, se per la Corte Suprema quello all’aborto non è più un diritto costituzionale, non lo è nemmeno per l’ordinamento nazionale.

È opportuno tenere conto come in Italia il tema dell’aborto sia rimesso alla competenza del legislatore, escludendo l’ambito giurisprudenziale. Una potenziale chiamata in causa del Giudice delle Leggi porrebbe lo stesso in radicale difficoltà, dovendosi trovare nella condizione di bilanciare il diritto alla vita, avente una posizione privilegiata tra i diritti inviolabili, ed il diritto alla libertà di scelta, anch’esso tutelato costituzionalmente.

In realtà, la querelle italiana in tema di aborto prescinde da un eventuale riconoscimento costituzionale: nell’ottica di chi scrive, quel che dovrebbe generare timore è l’approccio allo stesso. Il legislatore del 1975 sembra essersi preoccupato maggiormente di liberare le donne dall’aborto clandestino, piuttosto che riconoscere un vero e proprio diritto alle scelte procreative. Tale visione ha favorito l’emersione di taluni problemi interni, tra cui l’aumento dei medici obiettori, la disomogeneità territoriale nell’erogazione del servizio.
In definitiva, sebbene la mera liceità di una condotta non comporti in automatico il suo riconoscimento costituzionale, ciò non deve escludere la predisposizione di un’adeguata tutela nei confronti della donna.

È ormai tempo di ritornare a considerare l’aborto come una questione sociale meritevole di attenzione, così come avvenuto agli inizi degli anni Settanta.

Luana Leo è dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale all’Università Lum Giuseppe De Gennaro

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