Non è facile esprimere un giudizio disincantato, senza cadere in valutazioni faziose o, comunque, di parte sul recente e, per alcuni sorprendente, sciopero generale di giovedì 16, mentre alle tradizionali novene per il Natale si intrecciavano e continuano ad intrecciarsi balletti con star dello spettacolo politico volta a volta avvicendantisi sulla scena. Spinti o minacciati da partiti politici sempre meno credibili ed effettivi rappresentanti degli interessi dei cittadini.
In questo preoccupante quadro si è completamente perso il rapporto dialogico fra istituzioni, il Governo in particolare, ed i tradizionali rappresentanti degli interessi economici dei lavoratori. Compresi quelli, per ragioni di calendario e ormai fuori dal mercato del lavoro, dei pensionati e gli altri invece disperatamente alla ricerca di stabilità, di un lavoro adeguatamente retribuito e soddisfacente, sino a tentare fughe, come nel caso dei nostri giovani del Sud che, migrando verso il Nord, cercano soprattutto, se capaci, la definitiva fuga da un’Italia amara con i suoi figli.
Per dare un riferimento chiarificatore, si pensi ad un confronto fra gli anni ‘90 del secolo scorso, in piena crisi di rappresentanza della Prima Repubblica, quando con Ciampi, Premier di diversa caratura e carattere rispetto all’attuale Draghi, che cerca a sua volta di mantenere in piedi un equilibrio espressione di una nuova e più profonda crisi, dei nostri partiti e delle maggioranze “a geometria variabile”, nella quale convivono picconatori, o ex -, con garanti della lettera e dello spirito della Carta Costituzionale.
Negli anni ’90 si usava, come criterio di riferimento, un sistema basato su la coesistenza, o viceversa contrapposizione, tra tre meccanismi classificatori del rapporto Governo – forze sociali, cioè i sindacati. Si parlava allora di tre metodi nelle relazioni: la consultazione, la contrattazione, più vincolante e, soprattutto, la concertazione, cioè un sistema simile ai modelli di cogestione di ispirazione solidaristica, se non socialista. Volta a volta governo e sindacati, in continua dialettica con le istituzioni rappresentative politiche, cioè il Parlamento, verificavano la strada per il superamento di problemi che rischiavano di far saltare gli equilibri del Paese.
Per un rapido, quasi sincopatico, confronto con oggi, è possibile comprendere da un lato l’esplosione di Cgil e Uil per la proclamazione e l’effettuazione dello sciopero, dall’altro lo stupore (dei partiti della sinistra, rimasti spiazzati e di quelli di centro e destra, ostili, in realtà molto più impegnati nella “giostra” pre-quirinalizia). L’attuale Governo, forse meglio Draghi ed i suoi più stretti e fedeli ministri, dopo numerose consultazioni, spesso disordinate ma in realtà senza passare da una fase contrattuale e, soprattutto, ignorando la concertazione, ha saputo raggiungere uno scopo tutt’altro che meritorio, anzi pericolosamente inizio di un abbrivio per una nuova, non auspicabile, rottura dell’unità sindacale che, in questi momenti di pandemia e di difficile controllo della spesa pubblica, riporterebbe l’Italia nel buio. Un esempio concreto? Eccolo: il Governo, e Draghi, in un “tavolo” con i sindacati prende l’impegno di devolvere 8 miliardi derivanti da una rimodulazione delle quattro (ex cinque) aliquote fiscali nella prevista (soltanto) riforma al lavoro per alleggerire anche il carico del reddituale e previdenziale dei lavoratori. Con il passaggio nelle “porte girevoli”, dopo un’ora, in Consiglio dei Ministri l’impegno scompare e la somma viene devoluta ad altre finalità. Altro che concertazione.
In questo quadro non si tratta di esprimere valutazioni su uno sciopero che è solo l’epifenomeno di due pericolosi e preoccupanti momenti: lo svuotamento di valori e di capacità di gestione degli stessi da parte dei partiti nel rappresentare i sempre meno numerosi associati o fedeli seguaci, l’altro, fra continui rinnovi dello stato di emergenza. Ancora, la sostanziale paralisi delle istituzioni primarie di una democrazia, Camera e Senato ridotte a “bivacchi” per rapide riunioni per voti di fiducia su decreti o leggi, più che discusse, votate e soltanto basate sulla conta della “maggioranza a formazione variabile”, solo per la triste considerazione che «meno male che c’è Draghi, altrimenti a chi ci votiamo?». Certo uno sciopero generale che segna anche la totale sfiducia nei rapporti perfino tra sindacati e sinistra tradizionale, o il totale allineamento acritico di una parte di un sindacato su posizioni di quel po’ che resta della politica dei partiti, per esempio su una riforma fiscale assolutamente irrazionale, su una riforma della giustizia che tarda sempre più a realizzarsi, su una scuola che non si capisce se e quanto debba essere DAD o “in presenza”, mentre organici ed edilizia scolastica sono tutti da definire, portano a sospendere il giudizio su uno sciopero che, forse, è arrivato tardi e in un periodo tutt’altro che facile.
Conclusione: Io… speriamo che me la cavo, anzi, cari lettori, noi… speriamo che ce la caviamo.